I. Quarta di copertina di un fallimento elegante
C’è un momento preciso – e non parliamo di una frazione astratta o poetica o fotografica ma proprio un momento cronometrico, 14:12:39 del 13 ottobre, un lunedì che sembrava più ottobre del solito – in cui Adele, 62 anni e tre mesi, ha chiuso il libro che stava rileggendo per la quarta volta, La noia, e ha capito, con una lucidità al tempo stesso sobria e crudele, che aveva trascorso una vita intera a interpretare il mondo con l’albero sbagliato della mappa.
Il libro, per inciso, aveva la costina molliccia di chi è stato troppo portato in treno, aperto in letti non propri, bagnato con lacrime o caffè (non si sa più quali e quando). Era l’edizione Bompiani del ’93, quella con la copertina beige e il font triste, e Adele lo aveva comprato proprio l’anno della sua laurea, con un senso di sufficienza – tutta Calvino io, figurati se mi perdo nei tormenti di Moravia, borghesie e inetti, dio mio, l’anti-sogno!
E invece eccola lì, con la coperta di pile rossa sulle ginocchia, il termosifone che tossiva e la tazza di tè dimenticata accanto al gomito. A distanza di quarant’anni dalla tesi su Le città invisibili come mappa metafisica del desiderio narrativo, Adele era tornata a Moravia con un rispetto che sapeva di resa.
Perché sì, da giovani si vuole fluttuare tra leggerezza e molteplicità, tra rapidità e visibilità. Ma a una certa età ci si accorge che il peso delle cose è più vero della loro eleganza. E che Moravia, il noioso Moravia, il grigio Moravia, aveva detto la verità che Calvino aveva vestito di luce per non farci scappare via.
(Nota: da qui il racconto procede in uno stile à-la Wallace, con digressioni, note interne, incisi pseudo-saggistici, flussi mentali a rami che si rincrociano.)
II. La tesi, il mito, e un’allucinazione bibliografica
Adele aveva scritto la sua tesi in uno stato di trance semi-mistica. Era il 1985. Le biblioteche odoravano ancora di polvere e colla animale. I computer erano rumorosi e avevano nomi maschili. Il suo relatore – Professor G.G., semiologo part-time e fumatore di Gauloises – la incoraggiava con frasi tipo “scava, Adele, scava nei livelli della finzione!” e lei scavava. Annotava con penna nera, rileggeva Se una notte d’inverno un viaggiatore come se fosse un testo sacro in codice da decriptare.
Le sue giornate scorrevano tra sottolineature ossessive e sogni in cui era Marco Polo che spiegava a Kublai Khan come si sentiva quando amava un ragazzo che le rispondeva dopo tre settimane con una cartolina di Napoli, scritta da un altro posto.
Moravia, all’epoca, stava sullo scaffale delle “cose che mi spiegava mio padre”. Di sinistra, certo. Ma col collo della camicia sempre troppo rigido.
Calvino, invece, era quello che diceva le stesse cose che provavi, ma in modo che ti sentivi meno scema. Ti dava dignità, ti elevava. Era l’amico immaginario intelligente.
III. Il presente: cataloghi, polvere e lenti bifocali
Ora Adele lavora – pardon, collabora saltuariamente – in una biblioteca comunale di provincia, una di quelle strutture dove la muffa convive pacificamente con l’archivio storico e nessuno sa mai se la stampante funziona. Cataloga testi per anziani che non leggono più e studenti che non sanno cercare. Ha una figlia che vive a Berlino e un ex marito che si è “ritirato in silenzio digitale” su un eremo digitale in Umbria, dove scrive saggi sulla semiotica delle fragole.
Quel giorno – il 13 ottobre, ore 14:12 – Adele non è semplicemente una donna che chiude un libro. È una testimone di un ribaltamento. Come quando credi per vent’anni che l’amore sia una forma d’elevazione, e poi scopri che è resistenza, inerzia calda, capacità di stare.
E Moravia non era mai stato “freddo”. Era solo sobrio. Sincero. Spietato nel dire che spesso non si cambia, si sopravvive.
IV. Flashback: La discussione di laurea (o: del perché Calvino ti fa sentire geniale a vent’anni)
Seduta davanti alla commissione – composta da tre uomini e una donna che somigliava troppo a Elsa Morante per non distrarre – Adele aveva esposto la sua tesi con la convinzione da giovane apostola del postmoderno.
Parlava di semiotica del vuoto, città desiderate come intercapedini della psiche, nomi che erano anagrammi della mancanza. Uno dei professori (quello coi baffi) aveva mormorato “affascinante” come si direbbe di un’allucinazione intelligente.
Il 110 e lode era arrivato senza sforzi. Lode anche alla bibliografia – sterminata, fine, impeccabile. Aveva citato Perec, Barthes, Borges, perfino Eco, ma con cautela, perché troppo “mainstream”.
Nessuno aveva nominato Moravia.
V. Quando capisci che il mito non ti somiglia più
Adele ha ripreso in mano Le città invisibili la settimana dopo, quasi per difesa. Come si torna a casa dopo una lite e si controllano i cassetti per vedere se è tutto ancora al suo posto. Ma qualcosa si era spostato. Qualcosa non tornava.
Le frasi c’erano ancora – limpide, sospese, raffinate come miniature giapponesi – ma non suonavano più come rivelazioni. Suonavano come… tentativi. Come foglietti lasciati sotto il tergicristallo di un’auto che non guidi più.
E la cosa atroce, per chi ha costruito una parte importante della propria identità sull’idea che un autore ti capisca più della tua analista, è accorgersi che forse hai solo letto te stessa riflessa in uno specchio molto ben lucidato.
E qui si apre la prima vera crisi epistemologica di Adele post-sessantenne: quanto di ciò che ci commuove in un libro è davvero nell’autore e quanto siamo solo noi, desiderosi di riconoscerci in qualcosa?
Moravia – quel testardo realista, scomodo come una poltrona troppo rigida – non ti dava lo specchio. Ti dava il muro. E dovevi sbatterci la testa. E vedere se ti facevi male.
Calvino ti seduceva. Moravia ti interroga.
VI. In biblioteca, l’apparizione del “giovane Moravia”
È un mercoledì piovoso (come ogni scena importante nella vita delle ex laureate in lettere moderne), e Adele sta riordinando una pila di volumi rimasti per giorni sul carrello, quando un ragazzo entra.
Avrà ventitré, ventiquattro anni. Occhiali spessi, zaino consunto, l’aria vagamente allergica al presente. Parla piano, come se ogni parola fosse una prova generale. Chiede se ci sono testi critici su Moravia, sulla noia, sul vuoto esistenziale, ma non troppo psicanalitici, se possibile.
Adele lo guarda. C’è un silenzio denso di riconoscimento. Non lo ha mai visto, ma sa chi è. È lei, trent’anni fa. Solo con gusti migliori.
— Stai facendo una tesi?
— Sì. Su La noia. Voglio lavorare sull’inerzia narrativa. Sul modo in cui il racconto si sottrae alla trama. Come resistenza al capitalismo dell’evento. (ride, si corregge) È stupido detto così.
— No. È esatto.
— Lei ha mai letto Moravia?
— Tardi. Troppo tardi.
Il ragazzo sorride. Non chiede altro. Ma da quella sera in poi, Adele inizia a pensare alla tesi non scritta. Quella che avrebbe potuto essere. Un lavoro non su ciò che sublima, ma su ciò che resta.
VII. Annotazioni parallele: Calvino vs Moravia (dentro la testa di Adele)
(Nota trovata nel taccuino Moleskine nero, sezione “idee per un saggio che non scriverò mai”)
• Calvino: Cosa potrebbe essere.
• Moravia: Cosa è.
• Calvino: L’architettura dei sogni.
• Moravia: La geometria dei vuoti.
• Calvino ti fa sentire come se stessi diventando qualcosa.
• Moravia ti fa vedere che non sei diventato niente, e che devi conviverci.
VIII. La telefonata alla figlia e il punto cieco generazionale
Adele chiama sua figlia, Giulia, una sera in cui sente il bisogno di dire a qualcuno che sta capendo delle cose. La risposta è distratta.
— Moravia, mamma? Ma non era tipo… ipermaschile, freddo, uno che non scriveva donne vere?
Adele resta in silenzio. Non è che abbia torto. Ma non ha ragione.
— Sai, sto pensando che forse ho voluto troppo bene a Calvino. Forse mi sono nascosta lì dentro.
— Tutti si nascondono, mamma. Alcuni lo fanno dentro libri, altri su Instagram.
È una frase vera, che fa male nel modo giusto. Adele annuisce, anche se nessuno la vede.
IX. Tentativo di tornare a scrivere
Riapre il file Word intitolato TESI CALVINO DEFINITIVA_REVISIONE.doc che risale al 2006, ultimo aggiornamento. Lo legge con un misto di nostalgia e fastidio. Quanta ingenuità travestita da analisi. Quante certezze spacciate per stile.
Apre un nuovo documento.
Titolo:
“L’onestà della noia. Perché ho smesso di cercare leggerezza.”
Inizia a scrivere. Non un saggio accademico. Non una tesi. Piuttosto una confessione, ma con font da articolo serio. Un ibrido.
Parla della sua giovinezza, della fedeltà cieca a un’estetica che la faceva sentire superiore, e di come invece la vita l’abbia costretta a rivalutare ciò che è pesante. L’inerzia. Il quotidiano che si ripete. Il non senso.
La scrittura le esce dura, lenta, ma vera. Nessun orpello. Nessuna magia semantica. Solo voce. Nuda.
Come se Moravia stesse leggendo sopra la sua spalla, senza giudicare.
X. Epilogo: Il vuoto come forma piena
Adele cammina per la città, la stessa città che da giovane studiava come se fosse una delle città invisibili, e ora riconosce come Zaira: “La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano”.
Rilegge Calvino, sì. Ma ora lo legge con affetto, non con devozione.
È come tornare a casa dei genitori da adulti: riconosci le stanze, ma non ci vuoi più vivere.
Moravia, invece, è diventato il suo diario. Quello che non avresti mai pensato di scrivere, ma che finisci per rileggere più di tutto.
[ SiteLink : Volevo fare l’astronauta ]




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