
Ho questo libro nelle mani da diversi mesi, ma mi ha respinto più volte; per dire meglio, ai suoi tentativi di farsi leggere ho dovuto in diverse situazioni educatamente sottrarmi, capendo dopo poche righe di non essere intonato, di avere la mia empatia tutta altrimenti polarizzata. E quei versi, invece, chiedono da subito attenzione, un’attenzione piena, la mente sgombra e chiedono, soprattutto, silenzio.
Il libro è salpato tutto sommato di recente nel gennaio 2025 ma aveva già fatto parlare di sé in precedenza e raccolto meritati riconoscimenti, raccogliendo il primo premio per la poesia inedita con Corpi estranei al Premio Nazionale di Poesia “Città di Sant’Anastasia” nel 2022, poi come silloge vincendo il Premio InediTo 2023 e via continuando con diversi altri risultati (sul sito di Antonella Sica si può trovare il percorso in dettaglio).
E’ un testo che si impone, fa subito la voce grossa con quella poesia d’apertura che taglia il sipario – più che aprirlo – con la lama della perdita indomabile – quella della madre – che risale fino allo smarrimento dell”io infantile:
“…madre
Che sei andata via
come si spegne la luce
nella stanza di un bambino.”
E’ un testo che prende subito per il collo il tema del dolore, senza girarci attorno, in qualche modo dichiarando la propria “condanna alla luce“, la scelta di affrontare il passaggio con lucidità e senza cercare sconti. Poi però una volta disegnato quasi con la ferocia dell’entomologo il teatro dell’incomunicabilità domestica, il percorso prosegue abbassando i toni, mettendo in mostra, per contrasto, una quotidianità che mi viene da definire disabitata, in cui la perdita si fa percepire nel disfarsi delle relazioni e dell’unità domestica, trasformando la casa in una sequenza di disarticolate solitudini quotidiane, sordità reciproche, abbandoni non urlati e non drammatici ma comunque privi di respiro, congelati nella loro continua e rituale ripetizione.
Quello che ha maggiormente colpito la mia attenzione però è la parte finale della raccolta, nella quale il dolore iniziale sembra restare sullo sfondo, diciamo, come se fosse una chiave capace di aprire su stanze arredate da una malinconia preesistente; una postura intima che ha trovato nell’esperienza del dolore la possibilità di coagularsi, di farsi aprire, ma che viene da più lontano, come da più lontano sembra venire la “bambina sulla schiena”, l’alter ego infantile che dialoga con l’automa dell’io adulto, l’Io sociale che è colto nel suo essere strutturalmente in movimento, che dunque non sa fermarsi, neanche attraverso il dolore, ma proprio per questo suo essere strutturalmente e perfino ottusamente in cammino, alla fine è l’unica parte che prosegue a vivere e può salvare la persona intera.
In quelle stanze “dove nessuno chiama” , il tempo è raffigurato come il movimento inutile della lavatrice e “vortica/una partenza che non decolla“, il risveglio è una fatica di vertebre “imparando ancora a stare eretta“, mentre di fuori “la città si ostina a impazzire“, “gli operai sulla discesa guardano/ il legno che si gonfia/ i teli tesi sulla fuga dello strappo“. Questa immagine dei panni stesi, maltrattati dal vento ma comunque ostinatamente ancorati ai fili torna altre volte, come nel testo di pag 51:
“[…] schioccano sul filo due teli stinti
le fibre tese allo squarcio
solo quando s’alza il vento si scopre
cio che trattiene.“
C’è, mi sembra, in questa parte finale della raccolta una domanda inespressa, che si raccoglie nello sbattere al ,vento di quei panni e che non è ricerca di consolazione o qualche altra forma di resa; è ‘ piuttosto uno straniamento, un arrivo anche solo per stanchezza. Lo sguardo dell’autrice oltrepassa gli interni, abitati dai “corpi estranei” per affacciarsi ad un paesaggio urbano , una città rumorosa e distante, marsa d’aegua e de sa per dirla con le parole di Fabrizio De André , dalla quale (e questo lo trovo un verso strepitoso) “sale un odore di oscena intimità” e nella quale è possibile – a tratti – perfino sentire il fragile del ferro. Questi spazi, forse per la loro ampiezza, consentono comunque allo sguardo una prospettiva: “impercettibili ondeggiano le foglie/ nei lunghi filari di granturco/ le balle di fieno porgono il fianco/ all’oro che sale nell’aria/ satura di tiglio “. E poi, su tutto:
“Irrompe
un rumore d’ali
plana sui tetti
il silenzio è dei morti
per noi vivi c’è solo lo stare
dove nessuno chiama.“
[ Sitelink : “…se hace camino al andar” ]




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