Ancora un passo, poi il vuoto

Lì dove i giorni finiscono,
e una nave affonda nel tempo,
c’era un uomo con la schiena piegata,
non dalla vecchiaia,
ma dai turni mai interrotti.
Settant’anni,
non bastano per posare il martello,
né per guadagnarsi il diritto
di sedere al margine del giorno
senza il rombo dei cantieri.
Era salito sull’impalcatura
come ogni mattina —
mani ruvide, silenzi cuciti addosso,
il bisogno che pesa più della gravità.
Poi, quattro metri prima del cielo,
la caduta.
Il vento ha raccolto il suo nome,
ma nessun cartellone aziendale
riporterà la sua storia,
solo una voce spezzata,
una pausa nella catena di montaggio del dolore.
Inutili i soccorsi.
Il tempo lì si è fermato
come un orologio rotto nella tasca
di un uomo che voleva solo
arrotondare.
Diceva il cartello dell’azienda:
Il denaro guarisce tutto.
Ma non il vuoto lasciato,
non le mani senza saluto,
non gli occhi della civetta
che vegliano sul buio delle coscienze.
La terra si gonfia di sangue
e nel suo ventre pulsa una storia
che non va in pensione mai.
È fatta di madri, mogli, figli
che versano lacrime inascoltate,
mentre noi camminiamo
sui raccolti nutriti d’ingiustizia.
Siamo cannibali inconsapevoli
di una fame collettiva,
che mastica uomini
e ne risputa le ossa
tra i chiodi e le impalcature.
Eppure, tu non taci.
Non tacciono i vivi che ti hanno amato.
Il tuo nome
non si cancella con una folata di vento.
Risuona. Riverbera.
Come un martello
che non smette di battere.

Yuleisy Cruz Lezcano


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