Di Giuseppe Tecce


Da tempo mi interrogo sul senso dell’Europa, su dove sia rimasto custodito il nucleo identitario che ci ha resi ciò che siamo.

La storia di due amici d’infanzia, Ettore e Paolo, nati nello stesso paese, ma cresciuti in mondi oramai diversi, mostra bene questo cambiamento.

Ettore e Paolo erano amici da sempre. Quasi coetanei, erano cresciuti nello stesso paese, nella valle dell’Ufita. Stesse scuole, stesse amicizie, stesso giro di ragazze. Ettore e Paolo erano cresciuti a Sturno fino a diventare adulti. Solo allora le loro strade si erano divise. Ettore andò a Roma a studiare per diventare ingegnere. Il suo sogno era sempre stato quello di costruire grattacieli. Paolo lo sapeva bene, che Ettore camminava sempre con lo sguardo rivolto verso l’alto, come se dovesse acchiappare il cielo. E una volta diventato davvero un ingegnere si era trasferito a Milano. Il suo sogno, però, rimase infranto, perché invece di costruire grattacieli, finì in una multinazionale a progettare condotte per il gas. Il lavoro lo gratificava, aveva una moglie, e ogni tanto si concedeva una passeggiata in giro per la metropoli. Erano gli anni 90 ed Ettore a Milano si sentiva a casa. Aveva stretto qualche amicizia, ci si scambiava qualche favore e spesso anche una chiacchiera. Era ancora la Milano da bere, quella che faceva bella mostra di sé sui tabelloni pubblicitari. Ettore in quell’epoca aveva poco più di trent’anni. Paolo, invece, da Sturno non aveva mai voluto andarsene. Aveva fatto i suoi studi facendo il pendolare a Napoli, ma tornando sempre al suo piccolo paese. Paolo era diventato un docente di lettere, ed insegnava nel liceo locale. Anche lui si era sposato e aveva due figli, un cane e una gatta nera. Erano gli anni novanta anche in Irpinia e Paolo amava fare lunghe passeggiate in mezzo alla natura e guardare il calcio alla tv. Gli amici erano quelli di sempre, e la domenica era obbligatoria la presenza in chiesa. Per Paolo era normale passare il tempo in chiesa a fare le prove dei canti domenicali, e, ogni tanto, non disdegnava nemmeno di fare il Rosario.

Ettore, invece, era rimasto immerso nel mood milanese, impegnato, così com’era nel suo lavoro, frequentando happy hour e locali alla moda. Non c’aveva nemmeno fatto caso, ma con il passare degli anni, anche il tessuto sociale di Milano era radicalmente cambiato. Un po’ alla volta, senza accorgersene gli stranieri avevano progressivamente trasformato la fisionomia culturale della città, portando in città le loro usanze, costumi e religioni. Ettore si adattò ai nuovi costumi, come ci si adatta alle stagioni: senza pensarci troppo, finì persino per giustificare quei cambiamenti, come se fossero un esito inevitabile del tempo moderno. Paolo, invece, non aveva dovuto cambiare un bel nulla. Le anziane donne del paese continuavano ad andare a messa, le processioni rallegravano le strade del paese, così come era sempre stato, almeno nell’ultimo millennio. Di forestieri se ne vedevano pochi, e quei pochi che c’erano, erano integrati al tessuto sociale, sposando pienamente le tradizioni locali. Ettore e Paolo si incontrarono dopo 35 anni, tra grandi abbracci e qualche lacrima. Si incontrarono proprio a Sturno, dove il tempo sembrava scorrere lento e dove si ritrovarono a discutere del tempo che era passato, del cambio di stile di vita e della bellezza del vivere in paese, ricordando quando erano giovani e vigorosi. Non ci volle nulla che la discussione prendesse un’altra direzione, cominciando a confrontare quello stile di vita con quello della città, in particolare di una città cosmopolita come Milano. Presto le argomentazioni scivolarono verso il tema della poca sicurezza che, oramai, nelle città, sempre più affollate di persone provenienti da altri paesi e da altre culture, appartenenti a credo religiosi diversi, spesso contrastanti con le basi del nostro vivere civile, era venuta meno. Molto spesso le grandi città, italiane, ma anche e forse ancor di più quelle europee, erano diventate un crocevia di religioni troppo diverse dalla nostra, di donne abbigliate con abiti che talvolta lasciavano scoperti solo gli occhi e qualche volta nemmeno quelli, e spesso affollate di persone che non sempre erano compatibili con l’ordinamento morale che aveva retto la nostra convivenza. Paolo si guardò intorno e vide l’ordine che regnava nel suo paese, posto ai piedi dell’Appennino centro meridionale, e pose una questione: “forse i nostri paesi, per troppo tempo tacciati di arretratezza e di un eccessivo legame con antiche tradizioni, sono diventati lo scrigno che custodisce i veri valori della nostra società”.
“Il senso religioso delle nostre piccole comunità è un segno identitario di appartenenza ad una cultura cristiana, che è la stessa che ha forgiato le regole e l’identità di tutti i popoli europei. I piccoli borghi sono, ancora oggi, i custodi di quella identità, persa oramai in molte grandi città, e in quanto tali, sono i portatori dei principi fondanti della democrazia e della civiltà europea”. Siamo noi”, disse ancora in uno slancio di entusiasmo, “ancora una volta, lo scrigno che conserva la scintilla generativa della nostra cultura. Salvare i piccoli borghi dal declino, significa salvare l’intera nostra civiltà”.


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