Fu in occasione di una processione che Lorenzino Brunaldeschi, che già da un pezzo dava dei pensieri a suo padre, essendo di carattere “salvatico” e restio a uniformarsi alle regole della vita familiare, commise un grave delitto, in seguito al quale fu costretto a darsi alla macchia e a vivere, d’ora in poi, di omicidi e rapine. A Edoardo, questo Lorenzino in fondo gli era simpatico, gli pareva un ragazzo sveglio, capace di tener testa a quel bigotto di suo padre, e di rifiutarsi a tutte quelle menate, altaruzzi e funzioni, sante messe e preghiere domestiche: fin da bambino, il suo contegno in queste circostanze aveva lasciato molto a desiderare, con grande rammarico del padre, che ne lamentava l’indole ribelle e lo scarso timor di Dio. Da ragazzetto aveva reclutato, tra i figli dei contadini del luogo, una marmaglia alla cui testa compiva ogni sorta di monellerie: scorrazzando in lungo e in largo senza alcun controllo, i discoli rubacchiavano la frutta dagli alberi, spaventavano le ragazze che incontravano lungo i sentieri o nei campi, picchiavano i bambinetti più piccoli di loro. Nel giro di pochi anni la banda aveva allargato i confini della propria zona d’azione fino a raggiungere il vicino paese di Montagna Brulla. Qui s’era fatta conoscere per numerosi episodi di cui era stata protagonista: i ragazzacci frequentavano l’osteria, mangiavano e bevevano abbondantemente senza preoccuparsi di pagare; una volta ubriachi, schiamazzavano sguaiatamente, rissavano con gli avventori e molestavano le figlie dell’oste: se non fosse stato che Lorenzino era il rampollo di una delle famiglie più importanti dei dintorni, probabilmente non se la sarebbero passata liscia. Ma certo, col loro comportamento, s’erano fatti dei nemici: tra questi, un tal Paolino di Michele Giacomelli, la cui sorella Gena era stata più volte insidiata da Lorenzino e dai suoi compari. Costui doveva essere un tipo di sangue bollente, e coraggioso, se non esitò ad attaccar lite con quella banda di scalmanati: insomma le cose arrivarono a un punto tale che Lorenzino e i suoi decisero di sbarazzarsi definitivamente di Paolino. Il 14 maggio 1582, giorno di processione alla parrocchia di San Bastiano, Lorenzino e il suo amico più fidato, Marco di Battista da San Gostino, si procurarono due mantelli da penitenti con ampi cappucci e si unirono alla schiera dei fedeli: scorto in mezzo a questi Paolino Giacomelli, gli si affiancarono uno a destra e l’altro a sinistra, con le mani giunte e gli occhi bassi; arrivati in prossimità di una curva, dove il sentiero costeggiava un fossato pieno d’acqua fangosa, estrassero di sotto ai mantelli i pugnali, gli saltarono addosso e lo colpirono ripetutamente, finché non lo buttarono mezzo morto nel fossato e se la dettero a gambe: da ciò venne un danno irreparabile alla processione, in quanto i fedeli, distratti dalle loro preghiere, si slanciarono in massa all’inseguimento degli assassini. Lo sfortunato Paolino fu tirato fuori dal fossato ma era così malconcio che in breve rese l’anima al creatore, la statua della Madonna e il cero che solennemente venivano portati a San Bastiano furono abbandonati sul ciglio della strada e là rimasero fino all’indomani; gli omicidi riuscirono ad imboscarsi, sfuggendo ai loro inseguitori, e da quel giorno vissero fuori dal consorzio umano, spostandosi qua e là sulla montagna, rifugiandosi in casolari e ovili abbandonati, o in grotte, come gli animali, compiendo saccheggi, rapine e, all’occasione, nuovi delitti.
Tutto questo raccontava, sgomento, Agnolo di Lorenzo Brunaldeschi nel suo diario, aggiungendo al racconto amare riflessioni sulle difficoltà che incontra un onesto padre di famiglia, timorato di Dio, quando gli capita fra le mani una natura perversa qual era, evidentemente, quella di Lorenzino. Menomale che sua madre era morta prima di vederlo diventare un bandito!
Per nove anni Lorenzino e i suoi scagnozzi avevano corso la montagna, accumulando sul proprio capo bandi e condanne in numero esorbitante; infine erano stati catturati, impiccati e poi squartati, e i loro corpi erano stati sepolti in terra sconsacrata.
Giunto a questo punto della sua ricerca – letto e decifrato il diario dell’avo, una faticaccia, con tutti quegli sgorbi, quelle abbreviazioni, quelle macchie di umidità che rendevano illeggibili interi righi di scrittura – Edoardo sentì il bisogno di consultare il professore: così una mattina sua madre se lo vide arrivare in cucina a un’ora che non sarebbe esagerato chiamare antelucana: ingollata in fretta una tazza di caffè bollente, uscì per andare alla stazione e prese il treno delle sette e ventinove. Arrivato a destinazione, fu colpito da un fenomeno che, se non nuovo per lui, era certo, in quel momento, inaspettato. Una gran folla era assembrata davanti ai cancelli della facoltà, nel cortile interno, nel grande atrio che conduceva alle aule. I visi dei più erano pitturati e grandi affreschi sgargianti ornavano le pareti e i pavimenti. E’ vero, disse tra sé, il telegiornale l’aveva detto. Stanno occupando la facoltà. Avrei dovuto ricordarmene, facevo a meno di venire. Be’, ormai che c’era, tanto valeva che desse un’occhiata in giro: alcuni di quei murales erano divertenti, con Andreotti e Fanfani su corpi di polli o d’asini. Un affresco gigantesco e particolarmente variopinto raffigurava un grande falò di reggiseni e mutande, con una danza di befane sullo sfondo – erano proprio befane, con sottanoni lunghi, fazzoletti in testa e la scopa in mano. La stella a cinque punte si vedeva un po’ dappertutto, fiancheggiata dalle lettere B e R. Sul marciapiede, un motto: Fantasia al potere. Eh, questa è vecchia, si disse Edoardo, questa c’era anche ai miei tempi. Fantasia al potere, belle parole, e intanto al potere c’erano sempre le solite, vecchie facce: Andreotti, Fanfani, Aldo Moro. Inutile, lui era uno scettico, ormai, un disamorato. Troppi anni che stava all’università, troppi anni che si chiamava studente, troppe ne aveva viste e non gliene importava più niente, ormai: peccato, ma era proprio così. I primi anni li ricordava ancora con affetto: allora aveva partecipato alle assemblee, marciato nei cortei e preso parte alle occupazioni, con panini e sacco a pelo. Per non mettere in agitazione sua madre, le diceva che rimaneva a dormire da un amico: una volta aveva detto in casa che sarebbe andato, sempre col solito amico, a Venezia, e invece era andato a Roma a partecipare ad una manifestazione contro il governo e i suoi l’avevano visto in televisione, in prima fila, con l’eskimo verde militare e il pugno levato: quanto s’era incazzato quella volta suo padre, lui era un professionista affermato, noto nella sua città, e suo figlio non poteva permettersi di fare il contestatore, soprattutto in una città piccola e pettegola come quella, dove tutti sapevano tutto di tutti, come dice Francesco De Gregori.
Chissà che cosa c’era scritto in tutti quei volantini “ciclostilati in proprio” che anche lui aveva distribuito agli angoli delle strade e ai portoni delle scuole: lui ne ricordava uno in particolare, che a causa di un infelice lapsus era intitolato “Operai e studenti unti nella lotta”. Così anche dei discorsi ispirati che altri avevano pronunciato – lui di rado prendeva la parola, una leggera balbuzie gli creava imbarazzo – gli restavano in mente solo i tic e gli intercalari di quegli oratori improvvisati. Tutto il resto lo aveva dimenticato, e dire che sembrava così importante, allora. Ciò che gli restava di quei tempi era un’atmosfera, una colonna sonora, un odore di troppi corpi ammassati l’uno contro l’altro, un odore di pioggia, di fumo e di sudore che anche in seguito gli era capitato di sentire, a volte, su qualche autobus troppo affollato. Forse dovrei aggiungere un capitolo a quell’enciclopedia degli odori che ho trovato in soffitta, pensò scrollando la testa.
Nei mesi che seguirono Edoardo fece un’accurata schedatura del diario, secondo il metodo che gli era stato insegnato dal professore in un precedente seminario; lesse la maggior parte dei libri che gli erano stati consigliati, si documentò su diverse opere di consultazione, tra le quali il “Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana” di E. Repetti, per mezzo del quale verificò i nomi e l’esatta ubicazione delle località menzionate nel diario. Infine, essendo riuscito a contattare telefonicamente il docente, andò a trovarlo a casa. Era pieno luglio, la facoltà era semideserta, solo pochi accaldati studenti si presentavano agli ultimi appelli prima delle vacanze estive.
Il professore abitava in un angusto appartamento al quarto piano di un vecchio palazzo del centro storico. Appena varcato il portone, Edoardo si trovò in un ingresso stretto e buio, ingombro di biciclette, fra le quali riconobbe quella del professore, coi freni a bacchetta; dominava l’ambiente un forte odore di formaggio: al di là di un cortiletto interno, infatti, si trovava il magazzino dell’attiguo “Spaccio del Parmigiano”. Edoardo salì le scale, strette e scivolose, in pietra serena: non c’era ascensore, naturalmente. In cima all’ultima rampa, le mani appoggiate alla ringhiera, s’affacciò un viso femminile.
“La mia compagna”, disse il docente presentandogli una brunetta coi capelli corti. L’appartamento consisteva in una fuga di stanze che fu necessario attraversare per raggiungere lo studio. Ovunque regnava un disordine inverosimile, il letto ancora disfatto, biancheria in terra, portacenere stracolmi, cartacce appallottolate, tazzine e piatti da rigovernare ammonticchiati nell’acquaio di cucina, libri e giornali un po’ dappertutto, flaconi aperti di medicine, un lavoro a maglia ammezzato su una poltrona, un triciclo con le ruote per aria.
“Il bambino è dalla nonna”, disse la ragazza spingendolo da parte con un piede. “Vi faccio il caffè”.
Il professore fu molto contento del lavoro di Edoardo e gli consigliò di andare in archivio a cercare i libri di sentenze relativi agli anni in cui Lorenzino era stato più volte processato, sempre in contumacia, per trovarvi un riscontro a quanto si raccontava nel diario.
“Potrebbe venirne fuori un lavoro fantastico”, si entusiasmava, “che meriterebbe di essere pubblicato: potrei interessarmene io stesso, e ottenerle una borsa di studio… il fatto è che ora è tutto bloccato, puttana miseria”.
Lo studio era zeppo di libri, allineati su mensole e scaffali di metallo, accatastati in terra e sulle sedie, ammucchiati sulle due scrivanie; sotto la finestra, sul pavimento era in costruzione un garage di macchinine e protetti da una trincea di volumi rilegati due guerrieri Playmobil si fronteggiavano impugnando minuscole spade.
“Il bambino, sa”, fece il docente con l’aria di scusarsi e scaricò a terra una pila di libri, liberando una poltrona per l’ospite. Aveva uno stero di marca Singer e un unico disco, la Symphonie fantastique di Berlioz, che tuttavia possedeva in due esemplari: perché, gli aveva spiegato, lo stereo era dotato di un congegno, un’asta di metallo che si conficcava al centro del piatto e che poteva sostenere fino a otto dischi e scaricarli uno per uno, ad ogni ritorno del braccio. Così lui, che era un appassionato della Symphonie, poteva sistemare le due copie in modo tale che, finita la facciata A sulla prima, cadesse sul piatto la seconda, posizionata sul lato B: ciò gli consentiva di ascoltare l’intera composizione senza doversi alzare per girare il disco. Con quali benefici per l’incolumità dello stesso, su questo Edoardo aveva i suoi dubbi.
Tutto questo raccontò, la sera, alla madre e alle sorelle, e raccontò anche che il professore indossava una gonna, una leggera gonna di seta indiana a disegni, lunga fino alle caviglie.
“Cos’è, finocchio?”, domandò Anna, che aveva una mentalità un tantino ristretta.
“Macché finocchio! Porta la gonna perché ha caldo. E poi sta con una donna: hanno pure un bambino!”
“Ma che parole! E che razza di discorsi!”, finse di scandalizzarsi la madre.
“Si può essere finocchi e intanto avere moglie e figli”, intervenne Alice con una spallucciata.
“Vi dico che non è affatto finocchio. Ma guardate che cretine: lo saprò meglio di voi se il mio professore è finocchio o no”.
“Vi proibisco di usare queste parole”, finse di indignarsi la madre e uscì dalla stanza.
“In ogni modo un professore che porta la gonna mi piace poco”, si affacciò un attimo dopo. “Spero che per la tua laurea vorrà essere così gentile da indossare un paio di pantaloni”.
Edoardo frequentò per alcuni mesi l’archivio di stato della sua città. Archivio di stato, uno chissà che s’immagina, un luogo austero, solenne, soffitti alti, finestroni, la polvere dei secoli. Invece niente: tutte le mattine andava a bussare al portone di una palazzina, nella piazzetta retrostante la biblioteca pubblica, non lontano da casa sua; il custode dell’archivio era un tipo collerico, che non mancava mai di fargli rilevare l’inopportunità delle sue visite e il fatto che, se veniva ammesso ad entrare e a mettere scompiglio, era per l’estrema bontà del custode medesimo. A volte ad aprirgli era la moglie di costui: una donnina di mezza età, rossiccia di capelli, spettinata e con l’aria di essersi appena levata dal letto. In archivio inoltre conobbe una ragazza, studentessa della facoltà di giurisprudenza, che si laureava in storia del diritto con una tesi su certi antichi statuti comunali. La ragazza aveva gli occhi rossi e lacrimosi e si soffiava spesso il naso, deve averla lasciata il fidanzato, pensò Edoardo, o forse è affetta da un male incurabile: in seguito lei gli confessò di essere allergica alla polvere di quei libroni ma che ormai, essendo piuttosto avanti con la sua ricerca, le conveniva portarla a termine, sperando di non aggravare ulteriormente le sue condizioni di salute.
Edoardo si laureò il 21 aprile 1978. Sua madre volle assistere alla discussione: indossava un tailleur di Valentino color albicocca e un cappellino piuttosto eccentrico; aveva preteso che lui si comprasse per l’occasione un abito a giacca e una cravatta a righe oblique blu, verdi e beige. Il professore portava un paio di jeans non ancora rattoppati, un maglione bordeaux a collo alto e una giacca blu. Il movimento studentesco dell’anno prima non era che un ricordo; da oltre un mese le Brigate Rosse tenevano prigioniero Aldo Moro.
Il 7 maggio Edoardo sposò la ragazza che aveva conosciuto in archivio e che, ormai guarita dal suo raffreddore allergico, era passabilmente carina. Pioveva: la sposa aveva dovuto indossare uno scialle sul vestito bianco, lungo. Edoardo aveva insistito per riutilizzare l’abito della laurea, con grande scandalo della madre, che avrebbe voluto che se ne facesse uno nuovo. Due giorni dopo il corpo di Moro fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa, nel centro di Roma. Gli sposini lo appresero al loro ritorno da un breve viaggio di nozze in Provenza, durante il quale non avevano sfogliato un solo giornale. Andarono a stare in una delle tante case che la famiglia possedeva, una colonica appena fuori città; tiravano avanti con lavoretti precari che entrambi svolgevano quando gliene capitava l’occasione e con l’affitto di un appartamento in centro che Edoardo aveva ereditato dalla nonna. A settembre gli annali dell’Istituto di Storia pubblicarono un estratto della sua tesi.
Due anni dopo lui ottenne una borsa di studio e cominciò a lavorare in facoltà: recensiva i libri che arrivavano, stendeva bibliografie per gli studenti, assisteva agli esami. I nuovi studenti erano ragazzi tranquilli. Parlavano di programmi, di voti e di medie. Parlavano anche dell’auto e della fidanzata. Passando in mezzo a loro, Edoardo non avvertiva alcun odore di corpi accaldati ma solo un lindo profumo di bagnoschiuma e di deodorante. I nuovi studenti non erano contestatori, volevano studiare e prendere buoni voti. Davano ragione ai docenti, erano favorevoli alla selezione, andavano d’accordo con i genitori. La sera, rimanevano in casa a guardare Happy days e Furia cavallo del West. Le ragazze avevano ricominciato a portare calze e reggiseni. Edoardo certe volte si chiedeva in che direzione stesse andando il mondo.





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