L’autobus si era fermato in Via Lambrakis
e lei aveva sollevato lo sguardo dal libro che stava leggendo.
Un libro che ancora non esisteva.
L’autista aveva spento il motore e si era messo a parlare al cellulare,
in un dialetto incomprensibile.
Intorno c’era la periferia industriale
con i capannoni di cemento armato.
Le era venuto in mente un racconto di Rodari
quello del filobus che si ribella
e scarica i passeggeri in aperta campagna.
Una dozzina di minuti dopo
l’autobus era ripartito.
Lei era rimasta imprigionata
nelle pagine del libro che non esisteva,
sospesa tra un punto e un a capo.
Ferma, nello spazio bianco aspettava un gesto,
il tratto di una penna o il battere sui tasti.
In equilibrio su una riga immaginaria
aspettava che il primo passo fosse scritto.
Dal finestrino gli alberi lungo i viali sembravano di carta
peccato che non sapesse disegnarli.
Avrebbe cercato un illustratore.
L’autobus, era il numero quattro,
si era riempito di studenti usciti da scuola.
Qualcuno con il dizionario sotto braccio
e magari un compito in classe andato bene.
Un altro giorno sui banchi era terminato.
Due ragazze discutevano della versione da tradurre.
Lei si era guardata indietro
nelle pagine precedenti
Un cinque al sei in latino
Il voto insignificante che chiamavano incoraggiamento.
Non era un viaggio nei ricordi,
con la gomma cancellò il cinque e sorrise soddisfatta.
Con le parole si possono fare magie,
creare un tempo che non esiste
e cambiare il finale della storia.
L’autobus procedeva verso un nuovo inizio,
mancavano solo poche fermate.
Scrisse a matita una nota a margine:
a novembre c’è sempre un giorno che è estate.
Sembrava una promessa o un titolo.
Poi le porte si aprirono e lei scese con il suo trolley rosso
Imboccò la prima via a destra e sparì a pagina ventotto.
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