Guardo il bicchiere trasparente sul tavolo, ha una lunga e sottile crepa che lo attraversa, gli assomiglio, aspettiamo solo qualcosa di eccessivamente caldo, qualcuno con un fare distratto, una stretta eccessiva d’affetto, per restare frantumi su un qualunque banale piano d’appoggio. Non servire più a nulla, agli altri, continuare a non servire a noi stessi, ti colga così sorpresa d’un tratto, questo mio stupido folle riso, con cui scrivo aperto e convinto. Non si può dire di un bicchiere pieno che sia un bicchiere vuoto, lo si può dire di un essere umano pieno, ben idratato, anche ben oltre il fisiologico.
“È stanca, ti va di provare a farla addormentare?”
Così presi da terra la sua bambina, che roteava come un ossesso sul laminato, sembrava una morbida e carina ciambella con la glassa rosa addosso, strillava e piangeva senza la benché minima decenza, la trovavo davvero simpatica, non scherzo, la trovavo uno spasso, divertente, vera. Così, avrei voluto il mondo.
La sua testa stava sulla mia spalla larga, sentivo il suo cuore battermi tra le costole, risuonarmi nella gola, rimbalzare tra tutte le vertebre, riverbere, mi chiedevo cosa provasse a starsene così in alto, senza alcuna fatica, mi chiedevo come mai io mi sentissi così alto, ancora più alto, con quel misterioso senso di leggero ovunque nonostante il suo peso in braccio.
Non conoscevo ninna nanne, non mi era mai capitato prima di cantalenarle, così pensai a Washer: “Goodnight my love
Remember me as you fall to sleep…”
Mi pareva adatta, non so, ma me ne ero convinto, e forse a riprova, o forse per puro caso, si addormentò in breve tempo, lasciando lentamente la presa dalla manica della mia maglietta. Provai uno strano senso d’orgoglio. Il mio Dio non è algoritmo.
“Mettila sul divano se dorme, poi vieni ad abbracciarmi.”
Quasi provai fastidio nel farlo, preoccupazione sciocca nel separarmi da quel momento, la coprii con cura con la copertina di cuori e pinguini o che altro, la baciai piano sulla guancia tonda.
Mi raddrizzai, e un’incomprensile senso d’improvvisa pesantezza mi pervase. Mi accorsi in quell’istante, d’un forse primitivo pensiero convinto: avrei potuto uccidere per difendere.
Nulla mi sorprende.
Mi alzo dal tavolo, ancora ho quel senso di pesantezza addosso, mi muovo a stento, ho la testa vuota e la stanza sembra stringersi ogni quarto d’ora, sono irrequieto, sudo freddo, cerco il caos solo per poter rimpiangere il silenzio, mi trascino dietro la tovaglia senza volerlo, strisciando una coscia contro il bordo del tavolo, il bicchiere cade a terra. Frantumi.
Nulla mi sorprende. Eppure tutto mi ferisce.
E Roma era splendida e indiscreta come sempre, fuori dalla finestra, come un venditore ambulante di rose al primo appuntamento.






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