By Gianluca Mantoani
Alle otto in punto di un tiepido mattino di metà ottobre la Costa Fortuna entra nel Bosforo e rapidamente raggiunge Galataport, il nuovo grande terminal turistico di Istambul costruito in posizione privilegiata all’imbocco del Corno d’Oro e impreziosito dal primo museo turco d’arte contemporanea, il “Modern” di Renzo Piano. Dai finestroni del ristorante “Michelangelo”, mentre facciamo colazione, i nostri occhi abbracciano impazienti i contorni della città che sembra non avere né centro né limiti e seguono nei profili gli edifici squadrati dello scalo, risalendo da questi a quelli dell’antico quartiere di Fatih, intorno alle mura teodosiane. Qui, sulla sponda europea della città, fra le linee prevalentemente orizzontali delle abitazioni, svettano alti i minareti e si impongono le sontuose forme curve delle grandi moschee di Haya Sofia, Sultanahmet e Süleymaniye. Tutto intorno, su entrambe le sponde dello stretto, la città si estende fin dove arriva la vista, mentre il profilo dei grattacieli domina straniante tanto sopra i lontani quartieri popolari quanto sulle vicine ricche ville di inizio novecento, pigramente affacciate sul Bosforo.
Aristotele descriveva l’immaginazione come un movimento dell’anima, la facoltà di creare immagini nel pensiero oppure, se vogliamo, di pensare mediante immagini e considerava questa facoltà come una specifica forma di conoscenza, distinta dall’intelletto razionale e capace di comporre i propri oggetti sia in rapporto ad elementi effettivamente percepiti sia in loro assenza oppure, addirittura, costruendone, liberamente, di nuovi.
Lo sbarco da una nave da crociera implica il movimento di centinaia di persone e richiede pazienza. Quando finalmente scendiamo a terra, le passerelle ci indirizzano verso uno stretto corridoio fra la sponda del mare ed un alta parete mobile che separa il flusso dei passeggeri dal fronte dei moderni edifici commerciali antistanti lo scalo. Il corridoio immette quindi verso scale mobili discendenti e tutta l’operatività del terminal si svolge all’interno di ampi e luminosi locali sotterranei. Alla fine raggiungiamo l’area di sosta per gli autobus, anche questa sotterranea, dove i ragazzi del Servizio Escursioni di Costa Crociere ci attendono per facilitare lo smistamento dei gruppi fra i diversi mezzi già pronti per gli itinerari programmati.
Questo movimento dell’anima procede in genere da una base organica che, fra tutte le percezioni, privilegia di norma lo sguardo, per quanto sia empiricamente accertato che gli stessi non vedenti dalla nascita vivono un’intensa attività immaginale organizzata su combinazioni percettive, diverse da quelle dei vedenti ma altrettanto efficaci. Questo movimento dell’anima, questo sguardo, può essere un vedere attivo, un flusso di luce che impregna la coscienza, ma anche – forse soprattutto – un guardare generico, un registrare nostro malgrado il resto dell’inquadratura, lo sfondo ultimo che va a bagnare la memoria profonda; al di là di ogni ricordo e consapevolezza.
È qui, davanti all’autobus, che facciamo conoscenza con la nostra guida per il giro: “Tutta Istambul con tutto il tempo che vuoi“: tre moschee, il palazzo Topkapi, un trasporto in battello, un pranzo in una location prestigiosa e una visita al Gran Bazar, tutto in meno di otto ore. La guida è una donna dell’apparente età di circa sessant’anni , di media altezza, che indossa un lungo vestito scuro; i capelli grigi un po’ crespi, raccolti a coda e le profonde rughe d’espressione sul viso abbronzato che le attribuiscono l’aspetto energico di una contadina o di una giostraia. Ci accoglie, con tono affabile e modi ad un tempo cortesi e sbrigativi; una volta che tutti sono saliti sull’autobus, si presenta: si chiama Linda, è turca e sarà la nostra guida per tutta la giornata. Parla con voce arrochita dal fumo un italiano corretto, un po’ faticoso ma efficace, che inciampa di quando in quando in vocali prolungate dalla ricerca del giusto vocabolo.
Dire sguardo è già un passo di onestà rispetto all’oggettività posticcia del verbo all’infinito. Uno sguardo non è mai “all’infinito”, ha un tempo preciso, un luogo soltanto; è un vedere che si fa carne; è un soggetto “vedente”, il suo specifico occhio. Non è mai neutro lo sguardo, anzi, è partigiano; del suo soggetto incarna il punto di vista e implica una direzione, una rete di abitudini, di aspettative e di timori, di disponibilità, di chiusure, una rete di relazioni; un’identità insomma. Ogni sguardo è un modo originale di stare al mondo. Per questo l’occhio è anche una potente metafora, un simbolo che può indicare un gesto di conoscenza oppure il potere di trasferire sull’osservato gli stati d’animo che ogni sguardo porta con sé. Perché, naturalmente, trattandosi del gesto di un soggetto, lo sguardo arriva con le sue emozioni, il suo stupore, i suoi timori, la sua meraviglia; la sua invidia anche.
Mentre ci avviamo verso la grande moschea di Sultan Ahmet, qualcuno nel gruppo di italiani chiede ad un tratto alla guida in che modo, come turca e musulmana, lei giudicasse quanto stava avvenendo da giorni a Gaza e in Israele, malamente dissimulando l’intenzione di metterla in difficoltà, sulla base della sua identità turca e quindi musulmana. Linda ha rallentato il passo, fermando sull’interlocutore il lungo silenzio dei suoi occhi immobili; poi, senza emozioni nella voce, gli ha spiegato di essere turca, si, ma non musulmana, essendo lei un’ebrea sefardita, discendente di quella comunità trasferitasi ad Istambul alla fine del XV° secolo, fuggendo dalle persecuzioni dei “cattolicissimi” reali di Spagna. Dunque, in quanto ebrea, la sua posizione sul conflitto in corso era comprensibilmente diversa da quella del musulmano medio. Senza specificarla ulteriormente, però, con un sorriso sornione ha subito rimarcato di non avere una grande opinione delle religioni in generale, considerandole soprattutto come una continua ragione di conflitto fra persone concentrate sulle reciproche differenze.
“Invece” – ha aggiunto con un nuovo sorriso, questa volta allargato anche agli occhi che intanto non avevano mai smesso di fissare il suo interlocutore – “io credo alle cose che succedono fra le persone, alla buona sorte, al malocchio. Le vedete tutte quelle collane e calamite e borse in quel chiosco lì davanti? Quelle appese, con l’occhio rotondo, bianco e blu? Quelle servono per proteggersi contro l’invidia e il male che uno sguardo può causare, anche senza volerlo. Si chiamano Nazar e le potete trovare dappertutto, in tutte le città e non solo in Turchia ma in tutto il Mediterraneo; ad Atene e a Tunisi, a Roma come in Marocco o a Barcellona. Questa è una cosa importante, non le religioni.”
Mi sono girato intorno, sorridendo; aveva ragione Linda. Non lontano, sulla piazza davanti ad Ayasofya, alcuni grossi cani ciondolavano pigramente fra i passanti, più oltre una lunga coda di visitatori si snodava fino agli ingressi della grande moschea, mentre vicino a noi un chiosco esponeva decine di colorate pashmine, ombrelli, bibite e centinaia di Nazar, gli amuleti sorveglianti, i grandi occhi appesi praticamente ovunque in forma di ciondoli, portachiavi, borsellini, apribottiglie e ogni altro immaginabile supporto. Occhi che scrutavano, insistenti, la piazza; testimoni materiali del grande movimento di anime (per dirla con Aristotele) che ogni guardare riguardati genera ad ogni istante. Una forza che protegge e domanda, che chiama in causa il pane e il sangue per crescere e vuole l’acqua e l’olio per guarire. Una forza che si posa senza riguardo sui corpi, come li trova e può cambiare le vite.





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