Mio zio Gaetano faceva il rigattiere; abitava in una modesta casa a Crema e, con il suo triciclo, ogni mattina, all’alba, partiva spedito per uno dei tanti paesi di campagna lì intorno.

Il suo strillo di riconoscimento, appena entrava nella strada principale del paese, conosciutissimo perché la frequenza delle visite era di più volte nell’anno, questo: “Done g’hi i strass, òs, fer rot, done per nagot?” (donne avete stracci, ossa, ferro vecchio e… –  maliziosamente aggiungeva – donne a gratis?).

Raccoglieva di tutto, anche le pelli di coniglio, meglio se del candido albino; i contadini le essiccavano a regola d’arte per poterle vendere e ricavare così qualche spicciolo insperato; le pelli di coniglio, a quei tempi, venivano usate per fare pellicce appunto di lapin, destinate prevalentemente ai bambini.

Lo zio non poneva limiti alla raccolta e qualunque cosa stesse sul carretto era degna; a volte vi finiva anche qualche vecchio mobile di noce: una credenza, un tavolo, un’angoliera (gongolava lo zio al rientro) e ancora, rame, posate di ottone e qualsiasi altra cosa che le donne di casa reputavano inutili.

Difficilmente pagava ciò che gli mettevano sul carretto, qualche spicciolo per le pelli, il rame, anche perché le signore del paese lo adoravano e pur di avvicinarsi al carretto di quel simpatico e romantico mercante di città, sempre erano pronte a disfarsi di qualche oggetto.

Lo zio Tanino, questo il diminutivo del suo nome, però amava sua moglie Annetta, semi cieca, che passava le giornate prevalentemente seduta sul ballatoio coperto antistante il loro uscio; stava lì per ore ed ore ad aspettare il suo amore anche quando, e succedeva spesso, scendeva il buio e lui tardava ancora.

Tornava, tornava sempre e i rientri, fosse stata buona o cattiva raccolta, erano sempre festosi; una volta nei pressi di casa, per avvisare la moglie, intonava arie d’opera: “... che gelida manina… se la… lasci riscaldare…”  cimentandosi in gorgheggi e acuti, sorretti di certo dai bicchieri di vino offerti nel corso della giornata dalle massaie, ai quali erano poi andati ad aggiungersi quelli che lui stesso si concedeva nelle, ahimè, tante osterie del paese.

Ad Annetta piaceva sentirlo cantare e la lunga giornata terminava con lo zio che calcava il ballatoio come fosse il palco della Scala; la zia, in estasi, si commuoveva sino al pianto.

A quel punto e solo a quel punto la rappresentazione terminava con un bacio appassionato; poi a tavola, mano nella mano, a sorreggersi vicendevolmente,  per la modesta cena e, infine, a nanna.

Così per un’intera vita di stenti, con testardaggine e rassegnazione, fingendo e dolendo nel vedere, anno dopo anno, una società contadina svanire travolta dagli anni del bum, dalle sirene della città, dalle fabbriche, dalla televisione, dalle macchine.

Sempre meno pelli, meno stracci, meno contadini, meno cavalli, meno conigli, meno polli sull’aia, meno orti, meno di tutto, e naturalmente, sempre più vuoto il carretto dello zio che però, imperterrito, sino alla fine, mai e poi mai rinunciò ai suoi “viaggi d’affari”.

Nel vederlo ritornare, sempre più lento, sempre più affaticato sui pedali, le donne ancora uscivano di casa, per salutarlo almeno e, affettuosamente, quasi a consolarlo gli chiedevano: “Tanino quang ga n’if” (Gaetano, quanti anni avete?).

A quella, per lui avanti negli anni, imbarazzante domanda, lo zio aveva trovato una brillantissima risposta che le faceva sorridere, sorprendendole,  commuovendole: “Me so Tanino!” (Io sono Tanino); un nuovo “strillo” insomma che accompagnava sempre con un bacio che posava sulla mano tremante, facendogli poi prendere il volo con un impercettibile soffio dell’anima.

Mi sono ricordato dello zio Tanino perché anch’io, come lui, ora fatico a rispondere a quella domanda, stridendo l’ineluttabile dato anagrafico con una nuova e sorprendente giovinezza dell’anima.

Quale potrebbe essere allora il mio “strillo”, la mia risposta?

Forse questa: Festeggio il primo anno dell’ultima infanzia!

Ad avvalorare la tesi, anche la saggezza del proverbio che recita: “A sét ann sèrem putéj a settànta siòumm ancamò chei”  (A sette anni eravamo bambini a settanta siamo ancora bambini).

Per mio godimento, sperando duri a lungo, e con buona pace di tutti.

[ Bloglink: Teresio Bianchessi ]

3 risposte a “Memoria – Primo anno dell’ultima infanzia by Teresio Bianchessi”

  1. E avevo anche uno zio che collezionava cose, si chiamava Pascal e si vantava di essere il più giovane piemontese ad essere arrivato in Argentina a soli 6 mesi. saluti Juan

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    1. Quella generazione vantava personaggi incredibili, certo erano tempi anche di migrazioni, anch’io ho avuto una zia nata in Uruguay a Montevideo ma la famiglia non fece fortuna così ritornarono in patria, nello specifico in Liguria dove continuarono una vita di stenti.
      Spero e mi auguro che a zio Pascal sia andata meglio buona serata Teresio

      Piace a 2 people

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