“Mi spiace se, qualche volta, l’ho fatta arrabbiare, ma le prometto che in prima media sarò più buono.” Luca.
Aveva ben altri programmi quel pomeriggio, l’appuntamento era sul lungomare con la sua ex collega Giulia per il tè del mercoledì, ma il tempo era cambiato improvvisamente, grigie e basse nubi erano arrivate dal largo, la temperatura si era bruscamente abbassata e, fatto assolutamente insolito, aveva iniziato a nevicare.
Affacciata alla finestra, osservava i candidi fiocchi danzare e li accompagnava uno ad uno sino a farli adagiare sulle barche dei pescatori in secca; uno, due, mille a formare una stola candida d’ermellino, a renderle magiche e poetiche alcove di sogni e di ricordi smarriti e ritrovati fra i granelli della rena.
Il mare sorpreso e attonito, per quel giorno, non più invadente protagonista bensì semplice, assorto spettatore.
“L’ho sempre considerata la mia seconda mamma, le voglio e le vorrò sempre bene.” Caterina.
Catturata da quell’insolita atmosfera intuì che l’anima sua si disponeva, trascinata da una forza ineludibile, all’avvolgente fascino dei ricordi, capaci di proporti e trascinarti in circostanze del passato e causarti ora come allora scordati tumulti.
Quanto aveva desiderato e atteso quel primo incarico, quel giorno, quando gli recapitarono la nomina, non aveva dato peso alla destinazione: “Località Cravarezza”; sapeva che era nell’entroterra, oltre il colle del Melogno, forse vicina alla base Nato che, dal cocuzzolo del Pian dei Corsi, controlla il tratto di mare antistante il finalese, ma cosa importa, diceva fra sé, di sicuro si tratterà di un ridente ed operoso borgo dell’alta via, di quelli che si intravedono percorrendo le prime strade interne dopo aver abbandonato l’Aurelia.
“Questo è l’ultimo anno, ma un giorno la vedrò e la saluterò.” Mario.
Cravarezza non esisteva, quella “località” stava ad indicare una vasta entità territoriale dove boschi di castagni, noccioli, pini, faggeti e prati, si alternavano sin su alla vetta del colle ad ospitare, distanti fra loro e raggiungibili per erti sentieri, una miniera e una ventina di cascine abitate da famiglie che lassù dividevano silenzi, solitudini e stenti.
Alla miniera la videro arrivare da lontano, non poteva che essere lei, la maestra; Ambrogio, il custode che viveva da sempre nella modesta baracca di legno assieme a moglie e figlia, abbandonò la guardiola e le corse incontro.
“Ben arrivata signora maestra, tutti la stanno aspettando, Rosa, Rosa dai presto vieni è arrivata la signora maestra.”
Ada posò la valigia, si asciugò la fronte e osservò quei primi genitori che aveva di fronte: sporchi, timidi, trasandati e capì che erano impreparati all’incontro, non reggevano il suo sguardo ed era palpabile il loro nervosismo mentre cercavano di convincere la loro figlia Lucrezia ad uscire dalla baracca e venire a farsi vedere.
“È timida, ha paura povera figlia, da quando siamo saliti quassù, è la prima volta
che vede un estraneo, dai Lucrezia vieni, non aver paura è la signora maestra.”
“Ciao, Lucrezia come stai, vedrai diventeremo amiche, dimmi quanti anni hai
Lucrezia?”
“Douze.”
“Dodici signora maestra, dai Rosa, porta un bicchiere d’acqua, si accomodi, venga nella baracca, è faticosa l’ultima salita vero, noi ci siamo abituati ma per lei che viene dal mare!”
Non lo vedeva più il mare, s’era fatto buio e solo la luce fioca dei lampioni era vigile testimone dell’insolita nevicata; scostò le tende e deserto e desolato vide il lungo mare mentre solitari, candidi fiocchi spinti dal vento con insistenza, impertinenti bussavano sui vetri; volevano entrare, così come i ricordi, nel profondo del suo cuore.
“Devo andare dal signor Mazzanti, mi hanno detto che alloggerò da lui.
“L’accompagniamo noi, non è lontano, dai su Lucrezia prendi la valigia della maestra, tagliamo per il bosco, facciamo prima.”
La casa di Mazzanti, detto “Lepre” era visibile dalla miniera, ma per raggiungerla bisognava prima scendere nel vallone che arrivava sino al torrente e poi di nuovo risalire.
“Lepre”, il Mazzanti, si era guadagnato quel nomignolo ai tempi della guerra partigiana quando riuscì a sfuggire ad un rastrellamento tedesco proprio grazie alla sua agilità che gli consentiva di apparire e scomparire, con scatti tipici del selvatico, alla vista e ai fucili dei soldati.
Braccato, ansimante, la giacca strappata, così Bruna se lo vide comparire quel tardo pomeriggio del ’43; conosceva bene i rischi che si correvano a proteggere i “banditi”, ma le bastò uno sguardo per leggere su quel viso sofferto e disperato, in quegli occhi azzurri e trasparenti come il mare, tracce inconfondibili del suo destino che fece entrare senza indugio, decisa a sottrarlo per sempre alle inutili e gratuite tragedie della guerra. Da lì non se ne sarebbero più andati.
“Buona sera, sono la maestra.”
“Buona sera signora maestra.”
“Buona sera signora maestra.”
Erano i figli più grandi: Martina di nove anni, Davide di sette.
“Sera gnora mestra.”
Era l’ultima nata, Vittoria; la piccina aveva tre anni e tutti erano rannicchiati a godersi il tepore della grande stufa a legna che troneggiava al centro e Ada intuì subito che quello era il focolare domestico.
Notò sopra i cerchi arrossati dalla fiamma pentole di varie dimensioni a cuocere minestre, carne e polente per uomini e bestie; nel forno teglie di genuine e prelibate ciambelle mentre, sopra il piano di cottura, appese ai raggi pendevano asciugamani, tutine, calze ad asciugare assieme a sacchetti di profumatissimi funghi che il “Lepre” trovava durante le sue escursioni nei boschi d’intorno.
“La cena sarà pronta fra un’ora, bambini accompagnate la maestra nella sua stanza.”
Se il padre era lepre di sicuro loro erano scoiattoli, infatti li vide salire con sicurezza e agilità incredibili sulla ripida e stretta scala a pioli di legno che portava
alla stanza di sopra.
“Signora maestra qui, dai, su di qui devi venire.”
Indirizzandole ampi gesti che dimostravano insieme gioia, invito ed accoglienza
“No, no la valigia la porta su poi mio marito quando torna dalla stalla.”
Pur senza bagaglio faticò non poco Ada a salire lassù, timorosa e traballante ad ogni passo teneva forte con la mano il piolo sopra e solo dopo spingeva il piede in salita domandandosi nel frattempo dove la stava portando quell’ascensione, quale incerto futuro l’attendeva, non prefigurando, al momento, il magico capovolto percorso di Alice e le sue meraviglie.
Col fiatone arrivò infine nella minuscola stanza: pavimento di traballanti, larghe assi di legno, letto con spalliera di ferro abbellita da soggetto floreale alpino, brocca dell’acqua, portacatino, lindi asciugamani con frange, sedia e scrittoio entrambi di legno grezzo, certamente opera del “Lepre” oltre a un vecchio armadio a doppia anta.
A portar luce due finestrelle, una rivolta verso il bosco, l’altra, davvero minuscola che dava sulla stalla; di sicuro prima della trasformazione del locale, da lì il Mazzanti faceva passare il foraggio per gli animali.
Riprese il fiato e subito fu pervasa da una piacevole sensazione, quella modesta stanza aveva straordinari privilegi che le consentivano intimità e, nello stesso tempo, partecipazione discreta alla vita della famiglia che l’ospitava.
Quella sera, mentre faticava a prendere sonno, disturbata dal muggito notturno delle bestie, dai rumori per lei sconosciuti del bosco, dal chiacchiericcio dei bimbi che arrivava da sotto, eccitati dalla novità del giorno, non poteva certo immaginare che quel primo incarico e quella che lei credeva destinazione provvisoria avrebbe invece occupato cinque anni della sua vita.
Alle prime luci dell’alba era davanti allo specchio; ancora un poco di cipria sul volto prima di scendere cercando nel contempo di intravedere, nel minuscolo specchio, segni e premonizioni della sua nuova, incerta giornata.
“Signora maestra io sono pronto, quando vuole andiamo alla scuola.”
Era la decisa voce del Mazzanti che arrivava in soffitta.
“Pochi minuti… arrivo.”
Scendere da quella scala risultò subito più difficile che salirvi, faticando Ada a trovare appoggio sui pioli sottostanti, disturbata dal pensiero che là sotto il “Lepre” potesse godersi lo spettacolo della sua goffaggine.
A infastidirla anche l’idea che tentasse di curiosare fra le pieghe della sua
ampia gonna scozzese che teneva, con pudore, faticosamente raccolta.
A metà discesa perlustrò sotto e tirò un sospiro di sollievo quando si accorse che il Mazzanti la stava aspettando fuori, intento a scrutare la giornata.
“Buongiorno.”
“Buongiorno, tempo buono oggi.”
Senza altro aggiungere prese con passo deciso il sentiero dietro casa che si inerpicava su sino al pianoro detto del “Din”; su quell’ampia distesa della montagna c’era una stalla abbandonata che da quel giorno si sarebbe trasformata
nella scuola di Cravarezza.
Ada arrivò lassù con il fiatone; il “Lepre”, per tutto il tragitto, non le permise nemmeno di affiancarlo; lui davanti indicandole solo a gesti i cambi di sentiero, lei affannata, in rincorsa con il desiderio, sempre disatteso, di poter porre alla sua guida domande sul cosa e sul come.
“Ci siamo, una volta qui ci stava il Din, è morto lo scorso anno, le sue bestie ce le siamo divise fra noi, ora la stalla è vuota, la ripuliremo, la trasformeremo in scuola.”
Ada per poco non svenne.
La costruzione aveva la caratteristica forma delle malghe di alta montagna, lunga e bassa con piccole finestrelle e una grande porta centrale che Mazzanti aprì con una robusta spallata scostando poi le ragnatele che penzolavano ai lati; scacciò all’interno topi, uccelli, rospi, gatti randagi, con i piedi scartò lo sterco secco ancora presente per definire un passaggio pulito e consentire così alla maestra di entrare.
Quella notte Bruna, alzatasi per quietare gli incubi notturni della piccola Vittoria, sentì la maestra piangere.
L’indomani era di nuovo sul percorso che dalla casa del Mazzanti portava alla spianata del “Din” attenta a non sbagliare sentiero, ma libera finalmente di tenere il proprio passo e di fermarsi per brevi soste che le servivano e per riprendere fiato e per raccogliere idee e ritrovare le giuste motivazioni.
Considerava, infatti, che se quella stalla doveva essere la sua prima sede scolastica, ebbene che lo fosse, prevalendo in lei la voglia di iniziare comunque il suo magistero.
A ridarle coraggio anche il ricordo dell’ammonimento di Plutarco: “L’opera del maestro non deve consistere nel riempire un sacco, ma nell’accendere una fiamma” e di sicuro, in quelle prime ore a Cravarezza, zone buie ne aveva viste e molte ed altre erano, di sicuro nascoste, da individuare e illuminare.
Riprese cammino e coraggio e quando alla fine sbucò al piano rimase senza parole nel vedere un brulicare di uomini che, comandati dal Mazzanti, stavano ultimando la staccionata attorno alla scuola.
Rispettosamente riverita dai padri che non interrompevano però il lavoro, si diresse verso l’edificio; c’era anche l’Ambrogio, il custode della miniera.
“Vedrà signora maestra per sera è tutto a posto.”
Da lontano vide il “Lepre” che stava inchiodando una tavola sulla grande porta
d’ingresso, quando gli fu accanto non poté nascondere la gioia, lesse:
“SCUOLA MONTANA DI CRAVAREZZA”
Commossa ammirò gli intarsi: stelle alpine, genziane, piccoli abeti, aquile ad incorniciare la scritta e intuì che quello era stato il lavoro notturno del Mazzanti; l’aveva sentito a tarda ora trafficare nella stalla.
Mazzanti spalancò la porta.
“Ecco, a posto, può entrare signora maestra.”
Varcò la soglia e si commosse, le parve di entrare in chiesa, istintivamente cercò
l’acquasantiera che non poteva essere lì, tuttavia non seppe trattenere il segno della croce.
“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.”
Inaspettato, un profondo senso religioso s’impadronì della sua anima nell’osservare i quattro lunghi banchi allineati che si differenziavano da quelli delle chiese solo per l’ampio ripiano d’appoggio, nel trovare laggiù la cattedra, una grezza tavola di legno a rievocare improvvisati quanto sacri altari campestri e confusa notò, appeso alla parete, un crocefisso che fissò con raccoglimento intravedendone dapprima il perenne monito di sofferenza e inquietudine, ma subito dopo, sollevata, un chiaro messaggio di speranza e di redenzione.
Si sistemò alla cattedra cercando di darsi contegno.
“Bambini, attenti, ditemi il vostro nome e anche quanti anni avete, così compiliamo il registro.”
“Rosetta Pambianco sette anni signora maestra.”
“Piero Parodi, undici.”
“Martina Mazzanti, ho compiuto nove anni signora maestra.”
“Io, Mazzanti Davide, sette anni.”
“Lu… Lucrezia Venturino, dodici anni signora maestra.”
Venti alunni in età compresa fra i sei e i tredici anni dichiararono timorosi la loro identità; li osservò uno ad uno e più che scolari le parvero animaletti spauriti del bosco che occasionalmente avevano trovato rifugio in quel luogo.
Ma si, Rosetta era il pettirosso con quella sua chioma disordinata color rame, Martina e Davide, figli del Mazzanti, li conosceva bene, due scoiattolini; Lucrezia, figlia dell’Ambrogio, fragile e timorosa proprio come un coniglio selvatico, Luca una marmotta con quelle sue guance piene e il fisico tozzo, Simona, la più piccina, un cerbiatto seduta vicina a Matteo, il più robusto, spalle larghe, collo breve a ricordare il cinghiale, Vittorio con quel naso aquilino era il picchio e Vittoria, la più alta, con quelle sue lunghe gambe e braccia, l’aquila.
Guardò negli occhi una ad una quelle creature ed in tutte trovò solitudine, abbandono, ed intuì la pena del loro cuore.
Su quei monti, divisi fra loro dalle asperità della montagna, dalle fatiche dei loro genitori, dalle privazioni, dalle intemperie avevano consolidato l’idea di appartenere agli ultimi, ai dimenticati, agli esclusi; considerò anche che su quelle quattro panche c’era un intero plesso scolastico accomunato dall’analfabetismo, un intero ciclo di cinque classi in una.
Capì che la didattica veniva dopo e il Cristo crocefisso le fece balenare un’idea che quella sera stessa discusse con il Mazzanti.
Quella fine settimana non rientrò in riviera ma restò a Cravarezza e il pomeriggio del sabato s’incontrò alla stalla, pardon alla chiesa, pardon alla scuola con il “Lepre”.
“Ecco tiri due righe lunghe quanto la parete, dritte, sì dritte, immagini uno spartito musicale.”
“Così?”
“Sì, proprio così, bravo.”
Adesso?”
“Riempia lo spartito di bianco, mi raccomando deve essere una striscia candida.”
“E’ asciutta signora maestra ci siamo.”
“Bene procediamo allora… ma cosa fa “Lepre” scusi… signor Mazzanti, due T NOT…TE, corregga; no, no ci vogliono due R TER…RA, attento lì non “fornica” ma FORMICA con la M.”
“Mi scusi, mi scusi signora Maestra, l’ultima volta che ho scritto ero nella resistenza, allora mandavo qualche cartolina a mia madre.”
“Ma santa pazienza Mazzanti “DIO” con la H, cancelli… subito… oh Gesù mio.”
“Signora Maestra cosa vuole, è da tanto che io non parlo con Dio, ci ho poca confidenza.”
Finito il lavoro, il “Lepre” era più affaticato che dopo una intera giornata a spaccar legna nei boschi.
“Bravo, grazie, grazie di cuore, davvero prezioso il suo lavoro, ora leggiamo insieme.”
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[ BlogLing : Teresio Bianchessi ]





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