Ciao Camilla, è un grande piacere per me poterti intervistare. Grazie per la tua disponibilità.
Due libri in prosa [“Il destino dell’onda” 2021 – 
“Tu sorgerai di nuovo” 2022] e una silloge poetica [“Tutto il resto mi sfugge” 2023]. Tre libri in tre anni, che in comune hanno, oltre ad una capacità stilistica notevole, un’esplorazione profonda e poetica dell’interiorità umana, del suo percorso vitale con uno sguardo attento sulla società.
Come sei arrivata alla scrittura, in generale, e in particolare a questo notevole triennio di così proficua ispirazione e creazione? 

Da che ho memoria di me, ho sempre scritto. Ricordo che da bambina scrivevo storie, favole, abbozzi di racconti. E da sempre tengo un quaderno con me, dove appunto pensieri, comprensioni, ricordi, o brani di libri. In passato scrivevo cose che tenevo per me, molto private, o che raramente condividevo con pochissimi intimi. La svolta è avvenuta nel 2002, quando ho avuto l’opportunità di collaborare con una rivista culturale di Verona, la mia città. E poi, ancor più, nel 2007, quando ho deciso di partecipare ad un concorso indetto da Fara Editore – che poi col tempo è diventato il mio editore. A quel concorso ho presentato un racconto lungo, “Il paradiso è un cul-de-sac”, che mi è ancora molto caro e che inaspettatamente ha vinto, ed è stato pubblicato. Da quel momento, anche se con fasi alterne, ho scelto di condividere ciò che scrivo, soprattutto partecipando ad alcuni concorsi letterari. È così che ho potuto pubblicare il mio secondo romanzo e la silloge, sempre con Fara. In quest’ultimo triennio fondamentalmente ho cominciato a pensare che lo scrivere non è una dimensione a sé stante rispetto alla mia realtà quotidiana, ma è integrata in essa. Perché c’è una parte di me che è collegata allo scrivere costantemente. Ho cominciato a considerare i miei scritti non più come qualcosa di estremamente privato, bensì al contrario come qualcosa di condivisibile.  E così un ingranaggio si è messo in moto.

Nel tuo libro “Tu sorgerai di nuovo” attingi dalla mitologia greca la figura della dea Demetra, plasmandola con grande cura e spirito fino a renderla viva, carne umana, terrena, ma tutto questo senza cambiarla nella sua essenza.
Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a lavorare su questo complesso e affascinante concetto? 

È stato come se Demetra, un giorno, fosse venuta a visitarmi. Questa dea solitaria ha cominciato ad abitare i miei pensieri insistentemente, e ho sentito che dovevo in qualche modo darle voce. E così è nato “Tu sorgerai di nuovo”. Per scriverlo, ho ripreso temi mitologici che avevo studiato molti anni prima, ho cominciato ad approfondirli e un mondo intero mi si è spalancato davanti. La mitologia è un pianeta estremamente vasto e al contempo sottile, fatto di dettagli vivi, che riguardano la nostra psiche. Demetra in particolare è una dea sui generis, fa parte della schiera delle dee solitarie, e vive del suo potere generatore e della sua esperienza nella natura. A mio avviso è una dea portatrice di un archetipo che andrebbe considerato: è una figura femminile appagata dal proprio essere, e che non ha bisogno di un maschile per riconoscersi come creatura. E la profondità della sua autonomia si amplia proprio nella parabola in cui perde la figlia Kore, ma poi la ritrova trasformata: da fanciulla a donna, maturata pur senza la presenza della madre. È un mito che parla delle identificazioni con cui le donne crescono: mogli, compagne, madri. In particolare dell’identificazione con la cura, col prendersi cura di qualcuno. Per secoli le donne hanno creduto – e in buona parte credono tuttora – di aver valore solo se abbracciano un ruolo che implica la coppia (con un compagno o con un figlio) o il clan. In passato, le poche donne che rompevano questo schema venivano considerate pazze o eccessivamente stravaganti. Ma credo che in ogni donna viva il bisogno di essere selvaggiamente libera dallo spazio dell’accudimento e che questo anelito debba essere guardato in faccia, anche e soprattutto quando si è compagne e madri.

Sembra che come esseri umani e nonostante il progresso (o forse proprio per questo) abbiamo fatto più passi indietro di quanti ne abbiamo fatti in avanti.
Nella società moderna, a che punto siamo circa la consapevolezza e l’accettazione delle differenti doti naturali di Donna e Uomo? 

Io credo che il tema di fondo sia l’educazione, intesa come trasmissione. E con questo termine intendo un processo vasto, che ha come presupposto la consapevolezza di sé. Continuiamo a trasmettere di generazione in generazione gli stessi modelli di maschile e femminile, anche se – apparentemente – le cose sono cambiate. Le donne, certo, hanno più autonomia, gli uomini compiono gesti che prima appartenevano solo al mondo femminile – come la cura dei bambini – ma si tratta davvero di una rivoluzione profonda? Se donne e uomini non incontrano l’altro dentro di sé, il proprio polo opposto interiore, non potranno mai comprendere a fondo colui o colei che hanno di fronte, e con cui si relazionano. Le donne hanno dovuto sgomitare per trovare spazi nel mondo del lavoro, e lo hanno fatto però spesso esacerbando i propri lati maschili. O al contrario, spesso perpetuano forme di sottomissione che appartenevano alle loro antenate. Al contempo, gli uomini continuano a temere il proprio lato femminile – che alberga in tutti – perché lo scambiano per debolezza. Ho lavorato per quasi vent’anni come Counselor e mi sono occupata di storie familiari, e ho potuto osservare come ci sia in genere una grande confusione su ciò che si ritiene appartenere al maschile e al femminile. La femminilità non è sinonimo di debolezza o di sottomissione, così come la forza del maschile non equivale ad aggressività o a machismo, tanto meno a violenza. Questa confusione profonda, interiorizzata, porta anche ad atti estremi, che purtroppo sono sotto gli occhi di tutti. Credo sia necessaria una rivoluzione pedagogica, che parta da coloro che sono genitori, innanzitutto, dalla consapevolezza di sé stessi come individui, della propria storia, dei propri condizionamenti, perché inevitabilmente questi ultimi si tramandano ai figli. Una rivoluzione sistemica, dicevo, che in seconda battuta coinvolga anche le scuole e i luoghi di aggregazione. Sento molto parlare di un’educazione al rispetto, rivolta in particolare agli uomini e a favore delle donne, ma mi chiedo: noi donne rispettiamo davvero il maschile? È una domanda fondamentale che dovremmo porci, tutte quante. Credo che il rispetto senza una conoscenza profonda di sé stessi sia una parola completamente vuota.

Parlando di dei, di mitologia, ma anche per nostra cultura di Gesù Cristo e della sua resurrezione ci troviamo sempre davanti alla mortalità della carne. Ci troviamo davanti anche all’immortalità dello spirito però. Ma mentre la prima è una certezza che possiamo constatare, l’ineluttabile, la seconda, anche nella fede, è spesso avvolta in una coltre di dubbi. Secondo il tuo pensiero, cosa spaventa, e quindi condiziona di più i popoli, tra le due, in questo momento storico? 

La morte come mistero assoluto fa paura, certamente, è ‘il grande ignoto’. Ma ci sono popoli che hanno un rapporto con la morte molto diverso da quello occidentale. Penso al Messico, ad esempio, con i suoi rituali del ‘dia de los muertos’. Lì si vede come la morte possa essere evocata, guardata in volto, ritualizzata. Penso vi sia un rapporto inversamente proporzionale tra il timore della morte e la presenza di rituali collettivi. Laddove questi ultimi si impoveriscono, la morte si trasforma sempre più in un immenso tabù, e viceversa. Ma in fondo penso che la paura più profonda di noi esseri umani sia la morte di quella parte di noi che costruiamo per sopravvivere: la personalità. Tutto quel castello di condizionamenti sociali, di credenze familiari, di pseudo certezze con cui ci identifichiamo. Se crolla questo castello, cosa può accaderci? Possiamo anche impazzire, senza una prospettiva spirituale. E bada bene ho scritto spirituale, non religiosa. Si può essere molto spirituali senza appartenere ad una religione precisa. Io non sono cattolica, ma penso che crescere dentro un alveo di matrice cristiana abbia comunque un profondo impatto sull’inconscio. Anche gli atei devono chiedersi: che simbolo è il Cristo, con la sua morte e la sua resurrezione? Abbiamo davvero bisogno di attendere la morte fisica per risorgere? Io credo di no. Credo che la paura della morte fisica appartenga in realtà a chi non ha davvero vissuto una vita autentica, a chi non è morto e risorto tante volte, simbolicamente, per arrivare a comprendere la propria autentica natura. Ed è proprio qui che possiamo constatare, in un certo senso, che l’anima è immortale, infinita, che non si scalfisce: perché nonostante le tante morti e rinascite che possiamo sperimentare durante l’esistenza, resta viva e vibrante, eternamente giovane.

In “Tutto il resto mi sfugge” fai un salto, non semplice, dalla prosa alla poesia. Anche qui la potenza e l’ampiezza dei significati delle tue parole fanno pensare a ben più di un semplice vezzo stilistico. C’è stato, e qual è stato, il motivo che ti ha portato a compiere questo salto?

Sicuramente c’è stato e si è trattato dell’esperienza amorosa. L’incontro con l’altro, nella sua e nella mia profondità. Ho avuto la fortuna immensa di essere graziata, potrei dire, da questa esperienza, perché secondo me si tratta proprio di una grazia. E non parlo di innamoramento, parlo di amore. Quello spalancarsi all’esperienza d’intimità e condivisione a cui l’altro – il ‘tu’ – ti permette di accedere. È un’esperienza di spalancamento (non so neppure se esista questa parola, ma è quella che mi sembra più adatta). E quando ci si spalanca, quando ci si permette di essere attraversati da Amore, si è anche estremamente vulnerabili, perché tutto può passare attraverso di noi. La bellezza come il dolore. Nell’amore perdiamo i confini di noi stessi, diventiamo fluidi, e tutto questo può anche fare molta paura. Ma al contempo l’amore consente di vedere cose che prima non si vedevano, o di guardare le esperienze di sempre con altri occhi. Da qui sono nate le mie poesie: sono state degli attimi di rivelazione e insieme un’indagine su questa esperienza che è l’amore.

Tra le tue poesie ce n’è una che ti ho sentito leggere e che devo ammettere mi ha scosso abbastanza: “Il senza nome”. Ti andrebbe di parlarci del suo significato?

Questa poesia fa parte della serie ispirata agli Arcani di Marsiglia, i cosiddetti Tarocchi. Uno di questi è “L’arcano senza nome”, volgarmente detto “La morte”. In realtà questo Arcano non parla affatto di morte fisica, ma di trasformazione profonda. E quando noi cambiamo, è anche vero che moriamo un po’. Nel senso che muore una parte di noi, in cui non ci riconosciamo più. E insieme muoiono situazioni, relazioni, emozioni… Nella poesia ciò che finisce, che in un certo senso muore, è la parola. La parola che non serve più, quella che ha fatto il suo tempo, e che si ferma per far posto al silenzio, alla meditazione. Muore la parola proprio perché viva il silenzio e forse la comprensione. Molte volte noi parliamo di ciò che siamo, speriamo che gli altri ci ascoltino, a volte urliamo perché ci comprendano e ci conoscano per quello che siamo, ma non funziona. E allora al posto delle parole cala un naturale silenzio, che forse può essere ancora più incisivo e proficuo. Le parole sono semi. I contadini sanno bene che c’è un tempo per la semina, ma poi viene il tempo dell’attesa. Non si può seminare in eterno. Arriveranno i frutti? Non lo sappiamo, noi possiamo solo sapere di aver seminato. Ecco, come ho scritto nella poesia, noi non sappiamo se le nostre parole verranno fatte entrare davvero o lasciate fuori. Possiamo solo sapere di averle donate. Di aver impiegato tempo ed energie per sceglierle. E questo chiaramente vale anche per le parole che scriviamo: la libertà di chi legge comprende il piacere di considerarle, di accoglierle, forse di apprezzarle, ma anche il potere di ignorarle.

Sogno n. 13 (Il senza nome)

Mi fermo.
Riposo le parole sul cuscino.
‘Sono finite?’, chiedi.
Non lo so. Ma ne hai
in abbondanza.
Per le stagioni calde
e per la pioggia.
Per ripararti il cuore o per coprirti.
Camminano nel tuo giardino,
sbucano dai fiori.
E quando tu sentirai una brezza
sarà il loro respiro.
Mi fermo Amico.
È giunto il tempo che la falce
mieta un buon raccolto.
Lo scheletro di carne non aspetta.
Va avanti a testa bassa, recide frivolezze.
Io sono nuda ormai,
senza più abiti.
E nude sono queste parole stanche,
come animali innocenti.
Ti parlano e non sanno
se resteranno fuori o se le mangerai,
come un pane buono da non dimenticare.


[ Link – Fara Editore ]
[ Link – Camilla Ugolini Mecca ]

6 risposte a “Mitologie – Vitalogie. Intervista a Camilla Ugolini Mecca”

  1. Bella intervista a Camila Ugolini. Grazie Simon Terzo! Mi ha permesso di conoscere questa scrittrice e la sua visione della società italiana, che è comune per molti aspetti a quanto vissuto in Spagna.
    Grazie anche Camila per essere apparsa nell’emisfero Masticadores! Penso che tu abbia ancora molto da scrivere…
    Un saluto ad entrambi
    J. re crivello

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    1. Grazie Juan 🙏🏻
      Sono contento che ti sia piaciuta. Condivido: ha ancora molto da scrivere, così come molto ha scritto, quantitativamente ma soprattutto qualitativamente, in stile e in profondi messaggi umani.
      Ti porto anche i ringraziamenti di Camilla, per le tue parole nei suoi confronti, che espressamente mi ha chiesto di farti. 🙂
      Un saluto.

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  2. Intervista coinvolgente capace, in questo nostro tempo di pensieri …sparsi e persi, di far riflettere e di mettere ordine, con lucida intelligenza, attorno alle due metà del mondo: maschile e femminile entrambe assetate di aggiustamenti, di nuove visioni e piace che siano proprio le parole della nostra anima ad “educare” – “trasmettere” armonia ai tanti fragili amori.
    E di quanto altro ci sarebbe ancora da dire: il mestiere dello scrivere, mitologia, pedagogia, poesia, mortalità della carne, immortalità dello spirito…
    Confesso a intervistata e a intervistatore che, con piacere, l’ho letta più volte e non escludo di ritornarci.

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    1. Teresio, la ringrazio per queste sue belle parole, che come immaginerà condivido appieno.
      La sua confessione non può farmi che immensamente piacere,

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