Così come chi ama leggere ha i suoi “libri della vita”, quelli che lo segnano, gli lasciano un ricordo, un’impressione indelebili, chi ama la musica ha le sue “canzoni della vita”. Direi anzi che mentre la passione per la lettura riguarda solo alcuni, le canzoni scandiscono la vita di tutte e tutti, nessuno escluso. Così, un po’ per gioco, voglio ripercorrere la colonna sonora della mia vita, limitandomi però alle sole canzoni, escludendo la musica classica, per la quale il discorso sarebbe più complesso. Tra i miei primi ricordi ci sono alcune canzoni che io erroneamente consideravo “per bambini” anche se in realtà non lo erano: Banana boat, di Harry Belafonte, che adoravo per quel suo incredibile parlare di banane, un frutto in genere amato dai più piccoli, per la sua voce altisonante e per le urla e le parole incomprensibili. La seconda canzone era Ciao ciao bambina, e qui come darmi torto? Quella che Modugno salutava per sempre chiedendole “un bacio ancora” doveva certo essere una piccoletta come me. Non ci sono filastrocche e strofette nella colonna sonora della mia infanzia, e ciò è dovuto al fatto che non ho frequentato la scuola materna e passavo le giornate con i miei zii e le mie zie, tutta gente molto giovane dai gusti musicali adeguati ai tempi. Le mie zie avevano un giradischi che era un vero e proprio mobiletto, tanto che i miei fratelli immaginavano che dentro ci stessero accovacciati un uomo e una donna, che si alternavano nel canto. Io, che ero più grande, sapevo invece che la musica e la voce venivano dai dischi, e le mie zie ne avevano un certo numero, sistemati in un album simile agli album per le fotografie, solo che ogni pagina era una busta che conteneva un disco. Ognuno di quei dischi, un po’ più piccoli e ben più pesanti dei successivi LP, era un oggetto sacro e indiscutibile, ai miei occhi: quelle canzoni, e solo quelle, rappresentavano il patrimonio universale e indispensabile della musica contemporanea. C’era una canzone del Quartetto Cetra, Musetto, che simulava una telefonata tra due innamorati; c’erano Lisboa antigua e Pepito, c’era sicuramente un pezzo di Fred Buscaglione, artista amatissimo dalle mie zie, di cui grazie a loro conoscevo moltissimi brani. Forse l’album conteneva anche altri dischi e altre perle della musica anni ’50, ma se c’erano, mi sono usciti di mente. Inevitabile però che questi brani siano rimasti impressi nella mia memoria come pietre miliari della mia educazione musicale. Un altro pezzo fondamentale è stato Quando quando quando di Tony Renis, che costituì la base per tutta una serie di storie che mi raccontavo e che si basavano, come del resto la gran parte dei libri che leggevo, su drammatiche vicende di abbandoni e ritrovamenti.
Dopo questo inizio sfolgorante della mia carriera di ascoltatrice di pezzi musicali, e senza più il riferimento costituito dalle mie zie, che si erano trasferite e non avevano più l’occasione di fornirmi spunti interessanti o esotici, ho beccheggiato senza infamia e senza lode tra quanto passava il convento, ovvero i vari festival di Sanremo, Cantagiro, Festivalbar e simili. Fino ai miei tredici-quattordici anni ascoltavo quello che si sentiva ordinariamente per radio o si vedeva in tv, ovvero Gianni Morandi, Rita Pavone, Gigliola Cinquetti etc. Quando uscirono i primi dischi dei Beatles io, da brava reazionaria istruita dai miei genitori, non potei che mostrarmi inorridita e passarono diversi anni prima che fossi in grado di apprezzare i quattro menestrelli. Stessa cosa con Bob Dylan: non riuscivo ad amare la sua voce, che mi pareva in tutto simile a quella di Topo Gigio, e nemmeno le sue ballate che ritenevo lente e noiose.
Nel 1969 debuttò a Sanremo Lucio Battisti: un ragazzo con una gran testa riccioluta, dall’aria malinconica, con un filo di voce e con una canzone – L’avventura – che al mio orecchio intossicato da Orietta Berti sembrò priva di musicalità: “poco orecchiabile”, come diceva mia madre.
Da quali canali passò, quindi, la mia emancipazione musicale? Un’amica dai gusti molto più avanzati dei miei; un ragazzo di cui mi innamorai perdutamente e che suonava la chitarra; gli scout e le veglie accanto al fuoco. In quegli anni, gli anni della mia adolescenza, conobbi e imparai ad apprezzare gli artisti che tuttora amo ascoltare e che sono stati la colonna sonora della mia vita: i già disprezzati Beatles, Battisti e Dylan, ma anche Joan Baez, Guccini e Fabrizio De André. Di Fabrizio De André, io ignoravo perfino l’esistenza. La prima sua cosa in assoluto che sentii fu Spiritual, che io credetti fosse un vero e proprio spiritual, intonato dagli schiavi nelle piantagioni di cotone, e che invece, mi fu spiegato, era opera di un cantautore italiano che nessuno conosceva tranne pochi eletti. La seconda fu Geordie, che in verità non è sua, questa sì che è una ballata di origini popolari, e che mi impressionò moltissimo, anche perché venne cantata durante una di quelle veglie di cui dicevo, in un’atmosfera particolarmente suggestiva, con quella corda d’oro alla quale il povero Geordie veniva impiccato che suggeriva pensieri tetri.
Di Bob Dylan, finalmente riabilitato ai miei occhi, conoscevo e cantavo Blowin’ in the wind e Mr Tambourine Man, ma la canzone che ho più amato, delle sue, è Just like a woman, che continuo a considerare una delle più belle canzoni che siano mai state scritte, insieme a Space oddity, di David Bowie.
A quel punto ero pronta per avvicinarmi ad altri artisti italiani e stranieri: il grande amore della mia vita è stato Francesco De Gregori, e ricordo l’impatto che ebbe su di me Alice, con quel testo criptico e sognante. Mi rendo conto che più che di singole canzoni sto parlando di artisti: non è facile selezionare per ciascuno il pezzo migliore, a volte però è possibile individuare quello che ci ha colpito, che in un modo o nell’altro ci è entrato nel cuore. Così come ricordo l’emozione con la quale io e la mia amica del cuore accostavamo l’orecchio all’altoparlante del juke box di un paesino di montagna dove le nostre famiglie ci trascinavano in villeggiatura, per distinguere nel baccano generale le note di E tu cantata da Claudio Baglioni.
Dalla camera di mio fratello, che aveva una parete in comune con la mia, mi giungeva la voce lamentosa di Neil Young o quella melodiosa di Cat Stevens. Quanto ho amato Morning has broken!
Poi sono diventata adulta e ho lasciato la casa dei miei genitori: quando ci siamo sposati, io e mio marito abbiamo comprato uno stereo all’avanguardia e per molti mesi abbiamo posseduto un solo disco che ascoltavo in continuazione, The Wall, dei Pink Floyd.
A un certo momento, devo dirlo con dispiacere, i miei gusti musicali si sono fossilizzati. Ho smesso di conoscere nuovi artisti, ho continuato a seguire gli stessi che da anni erano nel mio cuore. Ho avuto dei figli, e sono diventata un’esperta di canzoncine per bambini e di colonne sonore dei film Disney. Passata l’ondata, ho smesso di informarmi su ciò che usciva di nuovo nel panorama italiano e internazionale. Ci sono cantanti, gruppi, di cui non so nulla. Non ho mai più guardato il festival di Sanremo, non ascolto la radio, alla televisione guardo solo serie crime. Il mio stereo non funziona più tanto bene, non ascolto musica in cuffia, qualche volta seleziono qualcosa mentre sono al computer: Father and son, Starman, The sound of silence, The dark side of the Moon…
In macchina, però. In macchina è un’altra cosa. Nella mia Panda di quasi dieci anni, dotata ancora di lettore cd, ho alcune compilation che ascolto a rotazione. E lì, ragazzi, ci si può sbizzarrire. Tutta roba datatissima, of course. Da Santana ai Buena Vista Social Club, da Donatella Rettore a Gianna Nannini, dalla Febbre del sabato sera a Gloria Gaynor, fino a Françoise Hardy e Charles Trenet. L’altro giorno cantavo con Samuele Bersani «In America lo sai che i coccodrilli vengon fuori dalla doccia» e dal sedile posteriore mi è arrivata la vocetta petulante di Dario, mio nipote di quattro anni:
«Ma che dici, nonna! I coccodrilli nella doccia! Stai scherzando, vero?»





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