La mattina, quando si sveglia, Caterina non ha mai voglia di alzarsi. Se fosse per lei se ne starebbe a letto per ore, tutta rannicchiata, il piumone sopra la testa. Depressione? Invecchiamento? I settanta li ha raggiunti e passati da un po’, e ancora si chiede come sia stato possibile, da ragazza che era, vivace e piena di entusiasmo, trasformarsi in questa anziana malinconica. Dicono che a una certa età sentirsi giù di morale sia un fenomeno molto comune. Quanto a lei, ne ha avuti di guai nella sua vita, ma a differenza di molte sue amiche non ha mai sofferto di depressione, almeno finora. La morte precoce della madre e di una sorella, un matrimonio non esaltante, il desiderio di avere figli mai realizzato e, per contro, una serie di aborti spontanei. Tumore al seno a quarant’anni, fortunatamente risolto. La vita è stata dura con me, pensava. Ora che è vecchia, invece, si è accorta che la vita, con lei, è stata morbida. Sì, le ha giocato qualche scherzetto, ma le ha garantito un discreto benessere, la possibilità di studiare e di avere un buon lavoro, di curarsi quando è stata malata, di vivere in tempo di pace. Non a tutti va così. Dovrebbe sentirsi grata, invece, acciambellata in posizione fetale nel tepore del suo letto, si sente in crisi più che mai. È proprio quel tepore che le crea ansia, perché le riporta alla mente il terribile anatema di Primo Levi rivolto alle persone che vivono sicure nelle proprie tiepide case.

Caterina è sempre stata interessata a ciò che avveniva nel mondo, con una certa propensione (morbosa?) per le situazioni drammatiche. Quanti anni aveva, quando sullo schermo bombato dell’apparecchio Telefunken che troneggiava in salotto rimaneva incantata a guardare le immagini di quei bambini africani, testa grossa, occhi grandissimi, torace scheletrico, braccia e gambe rachitiche? Biafra, si chiamava il posto da cui venivano quelle immagini, e lei nemmeno sapeva dove fosse, di preciso. E poi il Vietnam, e le torture in Brasile, e in Argentina i desaparecidos, e dappertutto gente che moriva di fame, bombe che devastavano territori, soldati col mitra imbracciato. Per un periodo aveva accarezzato l’idea di partire. Andare in qualcuno di questi posti dove la gente soffriva. A far cosa, poi? Che lei non sapeva far niente, niente di utile, insomma.

«Mica devi salvare il mondo», le diceva il suo fidanzato, come in seguito le avrebbe detto suo marito, cosa prevedibile, d’altronde, dato che si trattava della stessa persona. No, non lo doveva salvare il mondo, così restò a casa, nella sua tiepida casa, sentendo su di sé la maledizione di Primo Levi. Avrebbe fatto il suo lavoro impegnandosi al massimo, avendo sempre a cuore la povera gente, perché di povera gente ce n’era anche in Italia, non c’era bisogno di andare in Africa o in Sudamerica. Questo fu il compromesso, e per un buon numero di anni resse. Ma ultimamente, chi lo sa. È la vecchiaia, forse. È che le cose del mondo sembrano peggiorare. È che il compromesso non regge più, quelle poche ore di volontariato si rivelano per ciò che sono, briciole, l’esibizione della bandiera della pace sul terrazzo è solo ipocrisia, la casa avvolge, tiepida, e si sa, quando la casa è tiepida Primo Levi si arrabbia. Accoccolata sotto il piumone, vede sfilare davanti agli occhi le immagini immagazzinate in ore e ore di esposizione a televisione e social media: città distrutte, macerie ammonticchiate, carri armati e trincee, muri, recinzioni, persone in fuga, volti deformati dalla sofferenza, cadaveri abbandonati a terra, corpi avvolti in teli bianchi, corpi esanimi in riva al mare, barconi in mezzo ai flutti, naufraghi coi salvagente arancione, madri coi figli morti tra le braccia. Caterina tenta di allontanare quelle immagini, ma loro resistono, si sono insinuate dietro le palpebre, non se ne vogliono andare. Per proteggersi tira ancora di più il piumone sopra la testa, si raggomitola più che può. Il piumone però fa resistenza, come se qualcuno volesse tirarlo nella direzione opposta, costringerla a scoprirsi. Con un po’ di fatica Caterina si gira: una piccola persona sta impiegando tutte le sue energie per tirarla fuori da quel bozzolo. È Giacomo, suo nipote. Stamattina l’asilo è chiuso, ci dev’essere una riunione sindacale o qualcosa del genere, e lei ha promesso a sua figlia che si sarebbe occupata del bambino.

«Giacomo, amore…»

«Alzati, nonna, dobbiamo preparare la colazione, poi andiamo al parco, voglio fare un giro sulla giostra…»

«Certo, piccolo, tutto quello che vuoi. Lasciati abbracciare.»

Caterina adora quel bambino. Lo prende tra le braccia. È così tiepido…

2 risposte a “Tiepido Racconto di Marisa Salabelle”

  1. […] Tiepido Racconto di Marisa Salabelle […]

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  2. Solo ora mi rendo conto di un errore grossolano nel racconto: Caterina (che non sono io) ha desiderato esser madre senza riuscirci, però alla fine del testo un bambino la chiama nonna… miracoli della letteratura! Una svista alla quale avrei potuto rimediare facilmente modificando qualche dettaglio, e della quale chiedo scusa ai lettori.

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