Non so se conoscete quel racconto popolare in cui un cuoco voleva far pagare a un poveraccio il profumo dell’arrosto da lui cucinato. Trascinato davanti al giudice, questi chiese al debitore di far rimbalzare una moneta sulla pietra facendola tintinnare, quindi disse al cuoco: “Tu gli hai dato l’odore del cibo, lui ti ha ripagato con il suono dei soldi; siete pari”.
Se ci pensate bene, oggi il fumo dell’arrosto è una merce vendutissima; e spesso noi la paghiamo appunto con il rumore del denaro.
Quanto di ciò che compriamo è virtuale! Nient’altro che byte, numeri mai scritti su alcuna carta, oggetti inesistenti, parole che sono il debole sussurro di una corrente elettrica in una manciata di atomi. Programmi, libri, viaggi; ciò che può essere generato in infinite copie con la pressione di un tasto viene pagato per mezzo di un’altra pressione di tasto; in attesa di trasferirci tutti in un mondo immaginario, avvolti da una macchina che ci faccia sognare ciò che non esiste ma che vogliamo credere vero. Persino il profumo ha più consistenza.
A ben guardare, persino i soldi di carta e metallo non sono altro che sostituti virtuali del baratto di un oggetto concreto; non li puoi mangiare, non li puoi indossare, il loro valore è frutto di una convenzione al di fuori del nostro controllo. E’ tutta immaginazione, un trucco, un gioco di prestigio, una comodità alla quale siamo così abituati da non pensarci mai. Cosa sono cento euro, se non un’idea? Con bancomat e carte di credito abbiamo addirittura qualcosa di più intangibile del suono, più inafferrabile dell’aria scossa da una moneta che rimbalza.
Come questo post: gioco di luce, sfrigolio di elettroni, soffio di parole che spariscono allo spegnersi dell’apparecchio, effimere anche più di noi, pellegrini in questa terra senza sostanza.
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