Magnifico e tremendo stava l’amore: fin dal titolo questo libro di Maria Grazia Calandrone si preannuncia tragico, angosciante. Ho apprezzato molto, della stessa autrice, Dove non mi hai portata, perciò ho provato il desiderio di affrontare anche questa sua ultima fatica, che alla precedente in qualche modo si collega. Si tratta infatti in entrambi i casi della ricostruzione, attenta e documentata ma al tempo stesso lirica e passionale di due terribili vicende di cronaca: in Dove non mi hai portata Calandrone racconta la vicenda della sua madre biologica, che l’ha abbandonata in un giardino di Roma all’età di otto mesi per poi suicidarsi nel Tevere con l’amante, mentre in Magnifico e tremendo si dedica alla rielaborazione di un caso di uxoricidio avvenuto nel 2004, le cui radici però risalgono agli anni ’80 del Novecento.
Luciana e Domenico si sono conosciuti nel 1982, giovanissimi, belli, pieni di vita, e si sono innamorati. È stato un amore grande, potente, ma ha cominciato presto a rivelarsi un sentimento sbagliato, che ha intrappolato i due in una relazione ventennale fatta di violenza, sopruso, controllo, gelosia. Come spesso succede, è il maschio che agisce la violenza, il maschio che non ha successo nel lavoro e riversa la sua frustrazione sulla famiglia, che vorrebbe tenere la moglie segregata, che non tollera la sua affermazione personale e professionale, che alza le mani, lancia le sedie, rompe gli oggetti, picchia, strangola. Ed è la donna che non riesce a ribellarsi, che prova a lasciarlo, che poi ogni volta perdona, ritorna o permette a lui di ritornare. Diversamente da quanto accade il più delle volte, è lei, alla fine, che uccide lui, e non il contrario.
Per raccontare questa storia Maria Grazia Calandrone si è documentata con cura, ha letto articoli e interviste, ha guardato puntate di programmi televisivi, e poi ha fatto lavorare la sua ispirazione: si è messa nei panni di Luciana e in parte anche in quelli di Domenico, ha scavato nei loro sentimenti, ha intuito il modo in cui l’amore può trasformarsi in altro da sé, può rivelare i suoi aspetti atroci, la paura, il possesso, la violenza. Nettamente schierata a fianco della donna, che ha colpito per difendersi (e che è stata assolta sia in primo che in secondo grado), Calandrone ha uno sguardo compassionevole anche verso l’uomo, verso le ragioni che l’hanno fatto diventare ciò che è diventato.
La lingua nella quale è scritto questo libro è duplice: netta, dettagliata, ma al tempo stesso fortemente poetica. Al resoconto accurato dei fatti si alternano brevi recitativi, quasi stralci poetici, segnati anche da un diverso modo di organizzare il testo nella pagina, con particolari a capo, e arricchiti da riferimenti a brani di poesie e canzoni. Interessante anche l’inserimento della vicenda nel contesto storico, negli anni ’80 del disimpegno e delle televisioni commerciali, negli anni ’90 del crollo della Prima repubblica e dell’ascesa berlusconiana. Intorno alla metà del libro, però, i riferimenti alla realtà circostante cessano: i due protagonisti sono totalmente assorbiti dal dramma delle loro vite, al punto di essere diventati completamente impermeabili alle sollecitazioni esterne. Ci sono solo loro due e i loro figli, e quel sentimento “magnifico e tremendo” che si è trasformato in un mostro che li divora.





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