Di Gianluca Mantoani

Giù, più in basso, scendendo dalle punte scistose e dai serpentini verdi delle Alpi fino al mare profondo fra Sicilia e Tunisia, ci sono gli ampi sollevamenti di calcare rosato e dorato che hanno reso possibile la sosta ai popoli del mare, protetto i contadini, ristorato e nascosto i pittori e gli assassini, alzato antichi culti alle grandi madri, accolto a migliaia i turisti e mischiato le lingue parlate per approdare al presente.

Ci sono dunque, a Malta, fra i campi, gli olivi, le lamiere, le officine, gli svincoli, le casette basse e i piccoli condomini ancora luoghi dove tuttora si conservano i megaliti, gli ipogei, le pietre solcate da spirali e gli istoriati piedi grassi delle grandi madri, torniti nella pietra arroventata che ancora ad ottobre il sole può rendere abbacinante e misteriosa.

Sono posti guadagnati all’archeologia solo dopo che gli aratri dei contadini e le ruspe degli edili hanno esaurito la loro spinta; ci si arriva traversando un sobborgo periferico dove abbondano piccole decorose case basse, bisognose di manutenzione, i marciapiedi sono stretti, l’asfalto è un po’ sconnesso e gli autobus delle escursioni svoltano a fatica fra le vie.

Si entra e c’è un piccolo, stretto, museo locale e un negozietto, una biglietteria dà su una passerella che esce fra sassi e pietre che da migliaia di anni stanno lì, disposte ad altare dei bisogni di speranza e protezione, alzate a richiamo della fecondità, dell’abbondanza di raccolti, della vita dei figli.

Si resta rapidamente senza voce fra queste pietre chiare; si rimane sospesi al silenzio che pronuncia l’antica, rosata lingua delle arenarie e dei calcari, fra i megaliti traversati dai gatti e illuminati dai raggi di pioggia; si resta fra le pietre-oro, fronteggiate e circondate da brutta edilizia popolare, testardamente confitte nella terra; testardamente ancorate al tempo.