«Ci sarà il concerto?»
«Certo che ci sarà, perché non dovrebbe esserci?»
«Be’, dopo quello che è successo…»
«Guccini canterà. Al massimo dirà qualcosa con quel suo vocione e la erre moscia…»
«Credi che prenderà le difese dell’America?»
«Certo! È stata una tragedia!»
«Sì, ma lo sai, lui non è certo un amante degli yankee… e in fin dei conti una delle sue canzoni più famose, La locomotiva…»
«Che vuoi dire?»
«È l’elogio di un terrorista!»
«Che c’entra, tutto un altro contesto…»
Discutevamo animatamente, io e il mio ragazzo, mentre andavamo a Prato, dove avremmo assistito, in piazza del Duomo, al concerto di Francesco Guccini. Sì, d’accordo, era un vecchio, non era certo in linea con le più recenti tendenze, ma noi eravamo da sempre suoi fan e amavamo cantare le sue ballate accompagnandoci con la chitarra. Avevamo comprato i biglietti da mesi e quella sera ci preparavamo a goderci una serata un po’ vecchio stile, di quelle che sarebbero piaciute ai miei genitori, che però ai concerti non andavano più, a meno che non si svolgessero in confortevoli teatri o palazzetti dello sport: non avevano più la stoffa per sedersi per terra, col culo sulla pavimentazione in pietra. Borghesi!
Era l’11 settembre del 2001 e poche ore prima eravamo stati aggrediti dalle immagini delle Torri Gemelle che crollavano in un tripudio di fuoco, polvere, frammenti d’acciaio, fogli di carta e corpi in caduta libera. Sembrava un videogame, una cosa irreale, eravamo stati suggestionati dagli aspetti spettacolari dell’avvenimento, che tutte le reti televisive avevano trasmesso a ripetizione, perciò stentavamo a renderci conto che si trattava di un evento reale, che aveva coinvolto migliaia di persone. Il mio ragazzo era venuto a prendermi: avevamo fissato di partire per Prato alle otto, in modo da arrivare in piazza Mercatale, dove avremmo parcheggiato la macchina, ammesso di trovare posto, intorno alle otto e mezzo. I miei genitori avevano espresso dei dubbi: secondo loro il concerto sarebbe stato annullato, la cosa era troppo grossa.
«Va bene, ma che c’entra l’attentato col concerto? Se si dovessero annullare tutti gli eventi che sono previsti quando succede qualche brutta cosa, non si farebbe più nulla. E poi non siamo in America, noi!»
E poi, fino a ieri, fino a stamattina, non eravamo antiamericani, noi? Non erano gli Stati Uniti i malvagi del mondo? Non che ci si dovesse rallegrare per quello che era successo, ma gli americani un po’ se la cercavano, no? Eravamo sicuri che sotto sotto anche Guccini fosse d’accordo con noi. Avrebbe detto due parole in apertura, e poi avrebbe attaccato con La locomotiva. Tanto per far capire come la pensava…
A Prato, una città normalmente congestionata dal traffico, quella sera non circolavano molte auto. Trovammo parcheggio facilmente, piazza Mercatale era semivuota. Ci incamminammo verso il Duomo. Ci eravamo aspettati di trovare le vie del centro gremite: anche se della vecchia guardia, Francesco Guccini era sempre in grado di mobilitare un pubblico consistente. E invece niente, le strade erano deserte, in piazza del Duomo non era stato montato il palco, poche persone si aggiravano intorno frastornate e il pavimento della piazza era cosparso di volantini che annunciavano l’annullamento del concerto. Di Francesco Guccini neanche l’ombra: l’esibizione era stata rimandata alla settimana successiva, in segno di lutto. Fu solo in quel momento, credo, che realizzai l’enormità di quanto era accaduto.





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