
La prima vita di Emanuele Fant e quella dei suoi due più cari amici, combricola di punk alto milanesi, naufraga dopo aver incontrato uno “spudorato” sacerdote, dell’ordine dei Camilliani, che non si vergogna di inginocchiarsi davanti ad un barbone ubriaco, pantaloni incrostati dai suoi stessi escrementi, che vaga stralunato e senza futuro nei dintorni della stazione centrale di Milano.
Il Prete è riuscito ad avere dalle Ferrovie dello Stato un lungo cunicolo umido, buio, che si trova sul lato esterno della massicciata della stazione; è l’ultimo là in fondo alla via Sammartini e in quel precario rifugio trascina lo sventurato e, senza pudore n’è disagio, lo ripulisce, lo riveste, lo nutre, lo cura e gli da speranza affidandolo alle materne, amorevoli braccia della Madonna verso la quale nutre straordinaria, inesauribile devozione.
La figura di questo, fuori dall’ordinario, sacerdote è raccontata ne: “La mia prima fine del mondo – inseguendo fratel Ettore dei poveri” di Emanuele Fant – Editrice Monti, uscito per ricordare il decimo anniversario dalla morte di, al secolo, Fratel Ettore Boschini.
Nel racconto, le vite diverse si incrociano; Fant e i suoi amici sono presi dalla loro band, si fanno canne, vivono la vita disordinata tipica di tutti i giovani che vogliono crescere cambiando il mondo, sono catalogati “alternativi” nei collettivi di istituto che frequentano.
Celano però un segreto inconfessabile, peccano, trasgrediscono il loro stile apparente di vita, ritrovandosi clandestinamente, in casa di uno di loro, in assenza dei genitori, imposte sbarrate, per vedere di nascosto la video cassetta de: “Fratello sole, sorella luna” di Franco Zeffirelli, pellicola del 1972.

Le gesta del fraticello, quel suo disobbedire impertinente ai genitori, il non indossare le calze quando nevicava, baciare il lebbroso, trasgredire sistematicamente il codificato quotidiano, li inebria più del fumo e quando Francesco, nella pubblica piazza, leva e restituisce alla sua famiglia addirittura le mutande e resta implume di fronte agli uomini e a Dio, … partiva l’ola sul divano.
Inizia negli anni ’70 l’opera caritatevole di Fratel Ettore che somiglia molto a quella del buon samaritano, anche se il vero scopo del religioso è curare per prima l’anima ferita, convinto com’è che nessun uomo potrà mai essere libero finché sarà schiavo del peccato.

Milano è schiacciata, soffocata dagli anni di piombo; da poco pesantemente umiliata dalla strage di Piazza Fontana del dicembre del ’69; sul pavimento, al centro del salone della banca riservato alle trattative dei commercianti, l’ordigno provoca una buca in apparenza poco profonda ma quando dai fumi acri di quella crepa la città viene risputata non è più la stessa e la Milano fraterna, provinciale, laboriosa, bausciona, dal coer in man, rimarrà per sempre sepolta nelle viscere di quel pavimento, insieme alle tante speranze della gioventù d’allora.
Seguono anni di piombo, le brigate rosse, feroci contrapposizioni di destra e sinistra; il sabato non si può più andare in centro, San Babila è “off limits”, ma anche Corso Garibaldi, diventa teatro di una storica battaglia urbanistica tesa ad evitare l’allontanamento del proletariato dal centro.
I segni di quella contrapposizione urbanistica sono ancora ben visibili là dove, percorrendo oggi il corso, si alternano a pettine, palazzi moderni e case di ringhiera.
Lo conobbi in quegli anni, Fratel Ettore dei poveri, ne parlò alla messa il nostro Parroco che ci invitò a portare a quel rifugio, sopratutto coperte, materassi, cibo.
Ci andai una domenica mattina e quando arrivai davanti all’ingresso mi resi subito conto che lì c’era qualche cosa di diverso, insolito sin dall’esterno, là dove, notai, troneggiava una statua della Madonna, minacciosamente attorniata e difesa, verrebbe da dire, da un piccolo esercito di disperati che più disperati non si può.
L’impatto è forte e diventa shock totale appena varcata la soglia del rifugio.
Un tanfo nauseabondo di escrementi si mescola ad odori di minestre, di verze, di cavoli, di sudori, di aliti pesanti, avvinati, che ti inseguono lungo le due pareti laterali trasformate in dormitori da un susseguirsi disordinato e disomogeneo di letti, brande, sdraio, poltrone di ogni fattezza e pregio e che chiaramente palesano la loro provenienza; quella poltrona arriva certamente da un salotto buono, quella invece da una casa di ringhiera, ma lì, fianco a fianco, ogni posto per il sonno di quei disgraziati, ha pari dignità.
C’è buio dentro, non ci sono finestre, ma in fondo al capannone di questo desolato dormitorio vedo un altare la cui modestia e improvvisazione è armonica e coerente con la sofferenza del posto e la croce che si intravede e si erge sopra tutto e tutti ricorda, plasticamente, il Golgota.
Poi appare improvvisamente Lui, “Fratel Ettore dei poveri”, tuonante e radioso.
Resti colpito dalla grande croce rossa del suo abito talare, coinvolto dalla sua incontenibile carica, dalla sua gioia e capisci che, per lui, il Rifugio è certamente il più bel albergo di Milano.
Molti, dopo la prima visita, non ce la fecero a tornare; ritornai invece con Marina e Silvia e le bimbe consegnarono, un pò intimorite, i salvadanai dove avevano messo i loro piccoli risparmi per quelle persone meno fortunate di loro.
Fratel Ettore fu tenero con loro.
Il rifugio di via Sammartini divenne presto una istituzione per la città, le donazioni divennero numerose e generose; dietro ad ognuna c’era un nome e un cognome ma per fratel Ettore quegli aiuti così preziosi per la sopravvivenza arrivavano da una sola donatrice: la Madonna; era lei, lei sola a gratificare quella povera chiesa di strada donandole la provvidenza che giorno dopo giorno serviva.

Conscio del debito di gratitudine verso la Signora, non esitava ad issare e ancorare sul tetto della sua sgangherata macchina la statua della Vergine che portava in processione lungo le vie di Milano e tutti sentivano il suo vocione che sgranava i misteri del rosario; in coda, dietro alla macchina/statua, la fila dei suoi preziosissimi ospiti: diseredati, barboni, prostitute, ammalati di AIDS, drogati, insomma gli ultimi degli ultimi che lui trasformava, con quella sfilata, assolutamente in orgogliosi protagonisti.
Accadde così che ai cortei di destra, di sinistra, alle cariche della polizia, alle manifestazioni anarchiche, si aggiunsero, in quegli anni di piombo, le surreali e provocatorie processioni di preghiera di Fratel Ettore, a suggerire carità, a scuotere le coscienze annebbiate e avvelenate del tempo.
Capitava che il corteo si fermasse al semaforo e lì già allora c’erano i lavavetri, prevalentemente mussulmani, e a loro il Camilliano regalava un rosario, aveva sempre le tasche piene, a chi gli obiettava che avevano bisogno di qualche spicciolo per mangiare, fiero e cocciuto rispondeva che no, era più prezioso il rosario, la loro conversione; taluni finivano ospiti nel rifugio e al momento della preghiera suggeriva loro di pregare come sapevano.
Venti anni fa gli feci visita alla camera mortuaria allestita in una chiesetta vicino a Corso Buenos Aires, trovai in fila tanti milanesi, meritava quest’ultimo saluto.
Oggi lo si celebra ed è avviata una pratica di beatificazione, la sua opera, sotto la protezione della Madonna, direbbe fratel Ettore, continua.
Un prete, un prete di strada, non molti ma ancora ce ne sono e incredibilmente fanno paura, vengono ostacolati spesso, all’inizio, anche dalle gerarchie ecclesiastiche.

Emanuele Fant e la sua combricola di punk alto milanesi non ne ebbero e la loro vita cambiò radicalmente poiché davanti a loro si aprì l’autostrada dei valori veri che è solo nascosta dalla nebbia delle nostre fatue ambizioni.
Consiglio la lettura ai giovani che faticano a trovare la loro strada e perché no, anche agli adulti che magari l’hanno momentaneamente smarrita.
Emanuele Fant, autore del libretto che mi ha fatto rinascere il ricordo, lavora e collabora con l’opera di Fratel Ettore ed ha avviato il Teatro della Misericordia; attori protagonisti sono gli attuali amici del rifugio.
[ BlogLink : Teresio Bianchessi ]





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