L’approfondimento odierno nasce dall’osservazione di quanto spesso accade durante i percorsi di supporto psicologico che porto innanzi e -più nello specifico- mi riferisco ai percorsi di supporto alla genitorialità. Accade con sempre maggior frequenza che i genitori, nel descrivere quanto accade in famiglia, quando comunicano con i propri figli -per esempio- oppure quando si riferiscono alla propria genitorialità, portano innanzi al centro della comunicazione stessa una parola specifica: sacrificio.1
Si tratta di una parola non tanto lunga che reca con sé un substrato di retropensieri, di immagini e riferimenti subliminali ben specifici che attecchiscono nell’inconscio di colui o colei che ne riceve la verbalizzazione.
Durante un colloquio che conducevo con Luna (nome di fantasia) una ragazza di 16 anni, intruse -varcando con veemenza e senza preavviso- nello studio, la madre. Questo gesto portato innanzi senza il minimo tenere in considerazione l’intimità dello spazio rappresentato dal setting (e la privacy che Luna meritava), diceva molto circa l’assetto interno della signora F.
La madre di Luna era particolarmente stanca dei comportamenti che questa figlia impossibile2 aveva nei suoi confronti
“Sei una povera ingrata! Con tutti i sacrifici che io ho fatto per te! Nemmeno te li meritavi tutti quei sacrifici/ mi sono sacrificata così tanto!/ i sacrifici miei/ mi sono sacrificata per te”
La comunicazione della signora F. si presentava come un miscuglio di vomito e livore; lava incandescente di insoddisfazione (personale) e sensi di colpa. All’aumentare del tono della voce della signora F., scorgevo in Luna una gestualità che diventava sempre più compulsiva e agitata. Così Luna si agita sulla sedia, diviene sempre più rossa in volto fino al momento in cui scatta, tira via la scrivania, butta la sedia per terra e strattona la madre.
Genitori sacrificanti.
Vi sono dei genitori che hanno il necessario bisogno di frapporre tra loro stessi e i propri figli, il senso del sacrificio. Si tratta di genitori che se non evidenziano la base sacrificale delle loro azioni, non sentono di essere degni della loro stessa genitorialità. “Un genitore buono, è solo quello che si è sacrificato in qualcosa che ha fatto e che lo fa costantemente notare ai propri figli”. Lo stile educativo che deriva da questa presa di posizione, sarà -per forza di cose- uno stile altamente esasperato in cui un genitore bisognoso di continui riconoscimenti e affermazioni “sono un bravo genitore perché ho rinunciato a questo per te!” creerà un rapporto con il proprio figlio basato solo sullo scambio di rinunce e approvazioni.
Si tratta di genitori tuttofare che hanno come imperativo il dovere; questa tipologia di genitori (con possibili problematiche nella loro costituzione narcisistica), incorrono in profonde delusioni nel momento in cui il figlio non comprende la portata della rinuncia che essi stessi hanno portato innanzi. Ne deriva che madre e padre, avendo subito tale ferita (narcisistica) portino innanzi atteggiamenti vittimistici che diventano il ricatto emotivo.
Il tipo di relazione genitore/figlio diventa allora una finta relazione in cui i genitori devono dare senza che sia loro chiesto e i figli devono necessariamente apprezzare il sacrificio genitoriale. Ne deriva un rapporto basato su un egoismo insano e insano altruismo laddove l’altruista necessita dell’egoista. Il genitore pertanto, che sembra colui che sta in una posizione down è in verità colui che si impone perché fa sentire in colpa il figlio con questo ricatto implicito.
Il figlio in questione, vittima del ricatto emotivo (inconscio o meno) avrà innanzi a sé tutta una serie di insicurezze su cui lavorare.
Il figlio sentirà forte il dovere di dover dare soddisfazione ai propri genitori (per esempio con risultati eccellenti negli studi); successivamente, nel corso della propria vita, questi prima bambini poi ragazzi e in ultimo adulti, saranno fortemente spinti al sacrificio pur di ottenere il successo (e il riconoscimento) a tutti i costi. Saranno -questi giovani- sempre di più adulti competitivi che non saranno capaci di sostenere il peso di un fallimento o insuccesso perdendo completamente di vista l’importanza del piacere, matrice di tutte le cose (lavoro, relazioni, rapporti sociali).
Un bambino che sente un genitore dire “mi sacrifico per te” proverà senso di colpa. Nell’età dell’infanzia senza avere una adeguata capacità di decentramento cognitivo e mentalizzazione emotiva, il bambino potrà solo sentirsi fonte di disagio e tristezza per il genitore.
Un adolescente che sente un genitore dire “mi sacrifico per te”, reagirà con rabbia perché risponderà senza pensarci due volte “chi te l’ha chiesto” (e se ci pensate non ha tutti i torni).
Bisogna ricordarsi che la comunicazione è la base dei rapporti sociali. Se abbiamo avuto (come genitori) difficoltà economiche, emotive oppure se abbiamo effettivamente rinunciato a qualcosa della nostra passata vita, prima che un figlio si insediasse nella nostra quotidianità, dobbiamo farci due domande. La prima è capire se e quanto eravamo pronti alla genitorialità (in tal caso il tutto va fatto all’interno del bacino di contenimento che è il setting terapeutico); non essere pronti non è un male ma bisogna capire cosa resta da elaborare per avere una vita familiare e personale più serena. L’altro quesito invece è legato alla possibilità di dire ai propri figli anche contenuti negativi circa il proprio passato ma con tempi e modi giusti. Non esiste solo il positivo nella vita ma non possiamo sbattere in faccia al nostro interlocutore un nostro inelaborato, una nostra paura, noncuranti del grado di sviluppo socio-emotivo di chi abbiamo innanzi.
“E’ solo che quando io avevo la tua età, studiavo giapponese perché volevo andare a vivere lì. Poi nel frattempo a 18 anni sono andata in Spagna e dopo aver vissuto 8 mesi tra Barcellona e Madrid, sono dovuta tornare a casa perché tua nonna si era ammalata gravemente. Da lì in poi, morta mamma e morto papà, sono rimasta incinta di te all’improvviso e io davvero non c’ho capito più niente. Volevo soltanto essere una ragazza che girava il mondo invece mi sono ritrovata madre rinchiusa in casa. Non è che non ti amo.. è solo che mi sono chiesta dove sono finita.”
Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità.





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