Sono stata segno e misura, luogo e metafora. Non è che abbia voluto esserlo, ci tengo a precisarlo. Il mio appartenere non è passato mai per scelte o per disegni, il mio volere è una lunga attesa di cambiamento, se riesco a spiegarmi. Dunque sono stata raccolta e sgrossata, incisa e levigata, senza che nessuno si ponesse domande sul mio destino e sul mio percorso. Essere pietra implica soprattutto durezza e durata, se chi valuta è fatto di carne e di parola e questo, in fondo, era proprio ciò che serviva agli scalpellini. Tutti sanno, naturalmente, che le epigrafi si logorano perché il freddo le sbriciola, l’acqua le lucida e l’edera le fessura; col tempo finiscono per diventare illeggibili; eppure questa gente, essendo breve, scrive sulle pietre, scrive per simulare la durata, incide segni per superare il tempo.
Tornerò ad essere liscia e passerò ad essere altro, anche io; frammento da museo, forse, ciottoli e magari, molto più avanti, rena di una spiaggia abitata soltanto più dagli invisibili spiriti di fuoco e di vento, che oggi ancora si nascondono nei boschi e cambiano continuamente forma per paura degli angeli guerrieri, come fu prima del tempo degli uomini, nati dalle ossa della terra.
Qui solo una lettera brilla ancora tra due punti nella notte, quando la luce della luna riverbera sui miei cristalli; questa sola sigla è quanto resta di un nome e della vita che ha racchiuso. Si tratta forse di una “M”, che però non è più intera, perché la parte in alto è parzialmente saltata. Dunque chi riposa qui sui fines di questo villaggio? Un Marius, un Marcius, o un Metellus ? Nessuno può saperlo con sicuri indizi. Le lettere sono strappate, mutilate le linee e, nella confusione dei caratteri, ogni senso si è disciolto. Come gli uomini e le donne si disfano e dissolvono, i mutamenti e la morte gradualmente arrivano anche per le pietre e i nomi.





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