– Dal romanzo “Il sabato sfecide” di Afan Alessandro Fantini
[ Capitolo IV ]
“Per ottantamila euro non mi alzo nemmeno dal letto.”
“Sul serio l’ha detto?”
“Sta scritto qua”
“E c’ha ragione. Ne fa quasi due volte tanto a post.”
“Che strafiga assurda. Uh! Uh!”
“Sta proprio fuori!”
“Sarà ammaestrata.”
“No, secondo me è un fotomontaggio.”
“Che c’hai, la vista a raggi xxx?
“Se piglia tutte quelle bombe può pure essere una vera.”
“Ah, quindi… se una fa il grano su Famigram è perché deve aprire uno zoo.”
“Eh, quando arrivi a quei livelli non ti bastano più le persone…”
“Tutto finto, raga. Tutta fuffa fatta al computer”
“La lince forse, ma lei… dai, lei è tutta carne di prima scelta”
“A quanto la metterebbero se la vendessero al macello?”
“La lince?”
“Dicevo lei, la Brandis.”
“Non ce la metterebbero. Dovrebbero venderla tutta d’un pezzo all’ingrosso, carne, ossa, peli e tutto il resto.”
“Tanto a te alla fine interessa solo l’osso buco.”
“Ha parlato il fanatico del pesce crudo…”
“Fanculo!”
Nelle orecchie di Trisha rimbombava ancora l’eco di quella cifra quando le risate dei tre studenti vennero coperte dallo sbuffo delle porte automatiche dell’autobus. Un’eco così assordante da coprire il resto della conversazione. Ottantamila. Due volte tanto per post. Il ragazzo che l’aveva pronunciata, la felpa marrone, lo zaino sovraccarico di toppe e adesivi, lo conosceva di vista. A ottobre era passato da Tullio a farsi rasare le tempie. Goffo e sovrappeso, sfoggiava una rada barbetta intorno alle mascelle e lo sguardo vacuo di un bambolotto di lattice. Da quando s’era seduto davanti allo specchio fino al momento di pagare, non aveva staccato per un secondo gli occhi dallo smartphone. Quattro mesi dopo sembrava un adulto fatto e finito di un metro e ottanta che vestiva e faceva ancora frivoli discorsi da pischello.
Estrasse il telefonino dalla borsa. Quella mattina aveva postato un selfie in cui socchiudeva gli occhi sullo sfondo assolato della fontana di piazza Credia. Intorno a lei i passanti sembravano nappe di fumo colorato. Niente. Su Famigram e Clickclack il deserto. Nessun like. Nessun nuovo follower. Nessun messaggio né email. Nemmeno le solite mailing list sui trattamenti viso e corpo o sui nuovi shampoo ultra-vitaminici. Un po’ di pelle nuda in più nell’inquadratura e forse qualche cultore della carne si sarebbe degnato di mettere un cuore. Ma sarebbe bastato un simboletto rosso a rincuorarla? A farla sentire meno miserabile?
Scese alla fermata successiva.
Come apparsi dal nulla due macchine con i parafanghi a scacchiera sorpassarono l’autobus che ripartiva. Sobbalzò e per poco non si prese una storta al piede. Per mezzo minuto sentì il rabbioso rombare dei motori truccati affievolirsi alle sue spalle.
Intorno a lei il mondo andava sempre più veloce, le persone crescevano a vista d’occhio, facevano carriera, sgomitavano, si calpestavano a vicenda, accumulavano soldi e proprietà, e qualcuna poteva persino permettersi di schifare l’equivalente di quattro stipendi da operaio. Glenda Brandis. Sapeva bene chi era. Una smorfiosetta neomaggiorenne che aveva raggiunto la fama precoce ballando e cantando notte e giorno in hotpants su Clickclack. Nel giro di un anno la sua faccia era finita sui diari e gli zaini di scuola e su una linea di cosmetici per teenagers. Al confronto, le sue vecchie ambizioni da diciottenne di farsi strada come insegnante di fitness erano deliri da sfigata malcresciuta.
Sui marciapiedi non c’era anima viva. Quattro bottiglie di birra stavano disposte a croce su un tombino. Di fronte al cancello del condominio, un volpino nero leccava un cartoccio con dei rimasugli di carne al sugo. Ogni tanto nel quartiere ne spuntava uno nuovo. Forse abbandonato da una coppia di vacanzieri annoiati. Quel tipo di noia che portava i suoi a parcheggiarla dai nonni quando erano invitati ad una cena di lavoro o dovevano andare al cinema. A volte pensava che si sarebbe sentita meno in colpa a vivere a quattro zampe rosicchiando gli scarti degli altri. Farlo in posizione eretta come se non meritasse altro, era più degradante del sentirsi dare della cagna imbellettata. Tese in avanti la gamba. Il cane scattò all’indietro come una molla. Mise la coda tra le zampe e corse via zoppicando. Prima di varcare il cancello abbassò lo sguardo sul cartoccio. Deglutì con un senso di languida vertigine. Si ricordò che nello stomaco non c’era nulla a far compagnia al cappuccino e al croissant ai frutti di bosco delle otto.
Passò di fronte alla guardiola del portiere. Dietro il vetro velato dalla condensa scorse il faccione di Ivaldo. Sogghignava, gli occhi semichiusi abbagliati dallo smartphone attaccato al naso. In tre anni che abitava in quel condominio non ne aveva mai sentito la voce. A malapena si capiva che la stava salutando, quando al mattino e alla sera sollevava la testa per boccheggiare con quella fessura senza labbra incisa tra le guance rinsecchite. Ai suoi occhi quella sagoma da bidello imbolsito era più irreale di uno sticker olografico adocchiato su un muro della metro. Un’anziana rattrappita con le buste della spesa le passò di fianco mormorando -buonasera-. Doveva essere la tipa del secondo piano che viveva da sola col pappagallo. Si affrettò ad infilare il portone prima che si richiudesse, rimuginando su cosa avrebbe dovuto ordinare per pranzo.
Prima di poter valutare se fosse meglio farsi le scale, si ritrovò dentro l’ascensore. Non appena ebbe pigiato il pulsante del sesto piano, col pollice a rampino cominciò a scorrere il registro delle chiamate. Mezzo minuto e saltò fuori il numero della rosticceria. Dopo tre secondi la voce affannata di Nevio le risuonava nell’orecchio.
“Una porzione di fettuccine, una di vitello porchettato, patatine e… una pepsi.”
“Grazie mille signorina. Floriano sarà su da lei tra meno di mezz’ora.”
Poggiò il telefonino sul ripiano di fianco all’appendiabiti e recuperò la presa USB che penzolava fin dentro il portaombrelli. Lo mise in carica e si tolse il soprabito. Si diresse verso il pozzetto della cucina, richiamata dal sentore dolciastro di frutta stramatura. Controllò a fondo ma non trovò nulla nello sgocciolatoio, nel frigo, nel portaposate o nel secchio dell’umido, che potesse giustificare quella percezione. Nulla nemmeno dentro il bilancino a forma di gufetto che Edoardo le aveva regalato per l’anniversario del primo appuntamento. Se nello scarico avesse trovato trucioli di mela o bucce di banana leopardata si sarebbe sentita meno depressa. Si chiese quanti giorni fossero passati dall’ultima volta che era rientrata con una busta della spesa. O dall’ultima che aveva dato dei colpi di spolverino sui mobili. Una patina argentea s’era posata sulle mensole a muro e sul tavolo in vetro. Riviste di haut couture, hair stylist e coiffure pressati nel vano del mobile televisore creavano l’illusione di scatole dai dorsi dipinti. L’ordine e la simmetria dell’appartamento preannunciavano l’arrivo di un agente immobiliare con acquirenti al seguito.
Si sentì invadere da una marea di tiepida pena.
Sprofondò nel divano girato verso la porta e si sfilò le scarpe, calciandole lontano fino all’altro capo della stanza. Si tolse il fermacapelli a forma di petunia bianca e lasciò che i capelli le ricadessero sulle spalle in una cascata di mogano e colpi di sole.
Invece di passare per supermercati e fruttivendoli, nel giorno di chiusura del salone aveva preferito girare per i negozi del centro in cerca di rimmel ed eyeliner. Avrebbe dovuto andarci con Gemma, ma quella mattina la vecchia compagna di struscio le aveva mandato un vocale per darsi malata. In fatto di scuse non era mai stata molto inventiva. Aveva finito col comprare una crema rassodante, un lucidalabbra al lampone e un mascara blu.
Archiviata la storia con Edoardo, collezionare cosmetici era diventato un rito consolatorio con cui truccare l’angoscia dell’essere rimasta a convivere con il passato. Proprio come quello di scandagliare ogni centimetro quadro del corpo a caccia di cedimenti della pelle da nascondere con i trattamenti più estremi. Di sicuro la passione per i cibi saporiti non avrebbe appianato smagliature e cellulite. Eppure niente riusciva a farle dimenticare le imperfezioni della vita quanto l’idea di degustare gli intingoli di Nevio. Edoardo si rimpinzava sempre di wurstel tuffati nella senape davanti ai derby e alle finali di coppa. A lei non rimaneva che passare il tempo a combattere con la voglia di addentarne uno e di ficcarglielo in un orecchio. Se l’avesse vista piluccare nel vasetto anche solo con l’unghia, l’avrebbe accusata di voler diventare un canotto di lardo, come già faceva le volte che la sorprendeva a succhiare una caramella geleè e a masticare un mini macaron. A perdonargli quelle deroghe serali alla dieta da maratoneta bastava la convinzione d’avere il metabolismo più veloce della media. E il fatto che la bilancia gli desse pure ragione la mandava ancora più in bestia.
Era stato lui a farle scoprire che al piano terra del palazzo, quasi rintanato dietro i pilastri del portico, c’era una rosticceria. Di ritorno dall’autolavaggio, gli piaceva discutere di fuori gioco e rigori con il proprietario, un ometto pelato con lunghe braccia magre e occhiaie color bitume. Tra falli di mano e pronostici di classifica, alla fine aveva preso l’abitudine di ordinare polletti e patatine almeno una volta a settimana. Quando, negli ultimi mesi della convivenza, Edoardo s’era stancato di prendere l’ascensore e lei rientrava da lavoro dopo l’orario di chiusura, Nevio s’era offerto di consegnargli a domicilio le ordinazioni tramite il figlio Floriano. Da quel poco che gli aveva raccontato Edoardo, sembrava che il tipo fosse rimasto vedovo quando Floriano era ancora adolescente. E che la scomparsa improvvisa della madre l’avesse sconvolto al punto da spedirlo dallo psichiatra. Da allora doveva aver fatto parecchi miglioramenti, se da semi-vegetale inchiodato ad una sedia, adesso riusciva a servire i clienti a domicilio, beccando il piano giusto sulla pulsantiera dell’ascensore. Quasi un miracolo, a ripensare allo zio Terenzio, uscito di brocca per un divorzio e da vent’anni inquilino fisso di un istituto. Anche se in fondo era stato solo più coerente di tanti sbroccati che si fingevano sani di mente per sedere ai posti di comando.







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