Il prozio Emmerico è un manufatto al quale sto lavorando e sul quale, gradualmente, sto condensando una serie di riflessioni, di conoscenze, di intuizioni e certamente anche di speranze. Tutte queste cose hanno a che fare – per prenderla “alta” – sia con il linguaggio poetico che con quello delle scienze umane; ma soprattutto hanno a che fare con il mio personale modo di utilizzare questi linguaggi per osservare la realtà, provare a descriverla, formulare ed esprimere la mia visione su di essa.
Tutte queste cose e il prozio Emmerico in modo particolare, hanno a che fare con la mia storia famigliare e con la storia più largamente intesa, quella vicenda collettiva all’interno della quale le storie di tutti e di ciascuno prendono la loro specifica forma ed è in forza di questa connessione che si legittima la possibilità che una storia particolare, individuale, possa essere la traccia di partenza per una narrazione più ampia. Insomma, il prozio Emmerico è la materializzazione di una grave forma di presunzione da parte mia: prendere parola sul mondo e cercare il modo per farsi ascoltare.
Zio Emmerico, come manufatto, sarebbe solo un babaccio di cartapesta, per ora anzi ne è ancora unicamente lo scheletro; senonché da subito assume – direi quasi: pretende – un’identità precisa e raccoglie la più prominente fra quante si agitano in questo periodo nella mia immaginazione, ovvero quella di un fratello maggiore di mia nonna materna, il signor Emmerico Boso (ne ho già scritto anche per Immaginare, lo trovate qui), nato nel 1904 in un piccolo borgo della Valsugana, allora periferia dell’Impero Austroungarico. Emmerico era un montanaro che parlava italiano, tedesco e francese, ben alfabetizzato, operaio e manovale, anarchico e socialista, i cui fratelli e (molto probabilmente) il cui padre erano a loro volta legati in diversi modi al socialismo rivoluzionario di inizio ‘900. Ricercato e sorvegliato per due decenni, dal 1920 al 1940 dalla polizia politica italiana, esule prima in Svizzera e poi in Francia, combattente antifranchista nel ’36 sul fronte di Huesca, catturato al Piccolo San Bernardo nel 1940 mentre cercava di espatriare in Val d’Isère, confinato a Ventotene coi detenuti politici, da dove usci nel ’43, con l’armistizio, per essere poi nuovamente catturato in Trentino, dai nazisti e deportato nel 1944 a Mauthausen, dove morì pochi mesi prima della fine del secondo conflitto mondiale.
Come fratello di mia nonna (Oliva Boso), essendo oggetto di così strette e continuative attenzioni da parte della polizia politica, Emmerico è stato con ogni probabilità anche la causa indiretta del controllo e della violenza che mia nonna ebbe a subire negli anni ’30 e che contribuì ad aggravare la sua già difficile situazione di giovane madre, vedova, operaia metalmeccanica, sempre meno in grado di lavorare e guadagnare da vivere per se e per i suoi quattro bambini.
Questa pesante eredità ha poi condizionato anche l’infanzia ed il carattere di mia madre ed è alla base delle scelte (per me, oggi, complicate da comprendere) di silenzi e di omissioni sulla storia della nostra famiglia nella quale io e mia sorella siamo cresciuti. Dopo la morte di mia madre e di mio padre, fra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, qualcosa, una specie di curiosità intensa, più o meno consapevolmente mi ha spinto ad approfondire, a cercare notizie, ad allargare il quadro. Capire e saperne di più anche sul contesto di origine, Castello Tesino, piccolo borgo valsugano di frontiera fra mondo italiano e tedesco, in quel trentino che era allora luogo di emigrazione e di miseria (tanta), di irredentismo (meno di quanto raccontino i libri di scuola), di socialismo, di ampia mobilità e traettorie individuali sorprendentemente ampie.
Fra le cose che ho imparato a fare ce ne sono in particolare due nelle quali mi riconosco: scrivere poesie ed esplorare storie. Da queste pulsioni ed aspirazioni non riesco a liberarmi, perché in qualche modo riemergono quando le trascuro e, per qualche ragione, le due cose (le poesie e le storie) sembrano implicarsi e ostacolarsi a vicenda. Una mi rimanda costantemente all’altra col risultato che non riesco a dare una forma compiuta a nessuna delle due possibilità.
All’ennesimo riemergere di una storia che vuole farsi esprimere e raccontare ho pensato quindi di prendere la questione per un altro verso; invece di entrare nella storia dal lato della parola, funzione nella quale mi sono sempre trovato a mio agio e in qualche modo mi è sempre stata riconosciuta, ho deciso di uscire dalla mia “zona di comfort” e assecondare un bisogno che non riesco più a far finta di non avere, quello di “dare forma” materiale alle immagini e alle idee, producendo in qualche modo dei manufatti.
La manualità non è davvero mai stata, per dirla in sintesi, il mio ramo. La capacità manuale per me è sempre stata, come definizione e come caratteristica soggettiva, piuttosto una negazione. Da bambino ero contraddistinto dalle conseguenze di un ipotiroidismo congenito che aveva determinato problemi precoci alla mia coordinazione e motricità, al mio controllo “fine” sul corpo e sui movimenti. Ricordo vagamente visite dal logopedista, ricordo grande fatica nell’imparare a legarmi le scarpe, a distinguere fra destra e sinistra, a muovermi in un ambiente senza sbattere di qui o di là. La definizione del pasticcione e dello sbadato, del distratto, è venuta su con me appiccicandomisi dentro e, insomma, la manualità in qualche modo mi è stata sempre associata come definizione negativa e questo a partire dal discorso familiare: una frase che mio padre mi disse un giorno, in cantina, mentre lo aiutavo con la sistemazione delle bottiglie di vino fu: “dove tocchi bruci” e mi fece l’effetto di una sentenza. Lui era un operaio specializzato, un rettificatore, abituato a creare con la macchina utensile dei “pezzi” che andavano valutati con tolleranze del millesimo di millimetro. Era un uomo che possedeva il rapporto fra mano, lima e materia da modificare e con me faceva, a quel tempo, una certa fatica a trovare un collegamento.
Dunque ho deciso, questa volta, di “forzare la mano” (è davvero il caso di dirlo) e di iniziare passando attraverso la “produzione manuale”, provando a materializzare prima di raccontare o, in altre parole, a materializzare proprio per consentire a tutto quel groviglio di immagini ed emozioni di trovare un filo espressivo e una via d’uscita. Peraltro era da tempo che sentivo l’urgenza di “usare le mani” e dare spazio al “fare”, un gesto che per me è sempre stato difficile e al quale faccio fatica, io per primo, ad “autorizzarmi”. Da almeno un paio d’anni sono incuriosito e attratto dalla produzione della ceramica e dal desiderio di sperimentarne le tecniche; dato però che la ceramica è un’attività piuttosto complessa da gestire e non disponendo di un atelier personale, alla fine mi sono risolto ad iniziare il mio percorso provando ad utilizzare il materiale più povero e accessibile – ovvero la carta – e mi sono risolto ad iniziare questo lavoro di rappresentazione concreta partendo da una bozza in cartapesta.
Per procedere dovevo a questo punto decidere il “come“. Come rappresentare il prozio Emmerico? Mi occorreva scegliere e definire la forma nella quale condensare – almeno temporaneamente – tutta questa materia; mi serviva un contenitore nel quale imprigionare almeno per un poco il mio jinn, in modo da riuscire a parlarci – e a parlarne – senza esserne, come al solito, soverchiato. Questa forma doveva poter rendere conto di una memoria stratificata e complessa, una memoria personale, famigliare ma anche collettiva e “storica”. E non doveva soprattutto piegarsi verso raffigurazioni oleografiche, celebrative o altrimenti retoriche. Doveva, inoltre, servire a rappresentare un conflitto sociale e politico, antico e tuttora vivo, senza però descriverlo attraverso categorie già preconfezionate, ad esempio quelle commemorative collettive della tradizione del movimento operaio, oppure quelle dei memoriali pubblici e delle “box-memory” individuali, forme che di per sé indirizzano già ogni descrizione e definiscono a priori che cosa debba essere visto. Volevo insomma un modo diverso di raffigurare questa memoria, volevo farmi da me, per così dire, il materiale e i colori.
In questa ricerca di una forma adatta mi è tornata utile quella continua interferenza, a cui accennavo in partenza, fra discorso poetico e discorso delle scienze umane. Data la mia formazione universitaria è venuto spontaneo rivolgermi agli strumenti e agli approcci dell’antropologia culturale, da cui ho tratto e cercato di conservare la curiosità per il modo in cui, in altre culture, si affrontano e gestiscono problemi del tutto simili a quelli che toccano anche noi. Questa attenzione alle scelte fatte altrove consente di fare dei confronti e individuare, nelle categorie usate dagli “altri” per gestire la realtà, modalità diverse dalle nostre per pensare e per descrivere il mondo. Non è questione, evidentemente, di adottare gli strumenti concettuali altrui sostituendoli ai nostri, ma piuttosto di capire, osservando e curiosando, che non c’è nulla di “naturale” e inevitabile nel modo in cui pensiamo e descriviamo la realtà, neanche a proposito di cose apparentemente date e basilari come i concetti di “persona“, di “memoria“, di “antenato“, di “comunità“.
E infatti, con la complicità anche di una bella mostra tenuta a Torino circa un anno fa (Africa, le collezioni dimenticate), ho trovato sulle rive dello Zambesi e del fiume Congo il “contenitore” che andavo cercando allo scopo di rappresentare il prozio Emmerico (e me in rapporto a lui). L’ho trovato nella tradizione dell’Africa centro-occidentale, in particolare nella produzione di particolari statue dette “figure di cura” (Nkisi, plurale. minkisi) e “figure di potere“ (Nkondi, plurale minkondi). Sono le statuette che i missionari e i colonizzatori portoghesi del XVII° secolo chiamavano, con scarsa comprensione della realtà, “feitiço,” (dal latino facticius , ovvero: falso) e che attraverso il francese “fetiches” sono diventate i nostri feticci. “Falsi dei” insomma. ma affari veri, per tanti gentiluomini europei, commercianti d’arte, collezionisti e curatori di archivi e di musei di tutti i paesi colonialisti.

Senza poter entrare qui nel dettaglio del contesto che le produce, ciò che le caratterizza le “figure di potere“, come ad esempio quella dell’immagine qua sopra, è il fatto di condensare e incorporare un intreccio di spiritualità, gestione della comunità e amministrazione della giustizia del tutto diverso da quello al quale siamo abituati. Questi manufatti rappresentavano, spesso, la memoria degli antenati ed erano il risultato di una ricca collaborazione fra gli artigiani che le realizzavano e gli specialisti rituali che le “attivavano” dal punto di vista mistico. Come sculture erano concepite già in partenza per essere la dimora di poteri mistici capaci di influenzare la realtà e venivano realizzate prevedendo speciali cavità, destinate a contenere oggetti e sostanze carichi di significato rituale.
Le figure Nkondi, in particolare, erano dei veri “cacciatori” di ingiustizie ed erano “interpellate” dagli specialisti rituali per risolvere dispute, identificare colpevoli, favorire la stipula di trattati. Lo scultore incaricato, dunque, realizzava una rappresentazione e poi lo specialista rituale la “caricava” di energia spirituale, arricchendola e inserendo nella cavità addominale o nella testa (punti scelti per specifiche ragioni simboliche) particolari oggetti o sostanze chiamate “bilongo“, ritenute in grado di attivare il potere della statua e connetterla al mondo spirituale. Ciò che trovo particolarmente interessante è il rapporto fra la rappresentazione e la realtà che la produce, che è molto diverso da ciò che apprendiamo nella nostra cultura. Non c’è, alla base della produzione delle statue Nkondi, la separazione netta fra figura e realtà che consideriamo normale e, neanche, quel rivolgersi al passato che costituisce in effetti l’unico potere che concediamo davvero alle rappresentazioni quando le mettiamo in relazione con la realtà, quello di imitarla e non certo di trasformarla. Nel caso delle figure Nkondi, invece, i materiali culturali usati per allestirle le portano ad essere veri catalizzatori delle energie sociali e dunque essae possono avere effetti sulla realtà che le hanno prodotte, ad esempio favorendo la risoluzione di conflitti o la riparazione di qualche torto.
In questo tipo di rappresentazione, in questo nesso materializzato fra presente e passato, individuo e collettività, fra ciò che è già accaduto e ciò che bisogna ancora far accadere, mi sembra di scorgere un modello che consente di raffigurare la memoria e di porgerla, tenendo vivo il senso del conflitto che ha nutrito gli eventi ma anche ponendo la rappresentazione stessa come elemento attivo del risarcimento. Non solo una nostalgica “memory box“, dunque o un anonimo “pubblico memoriale“, ma le due cose insieme; emotivamente e politicamente efficaci, proprio perché tenute insieme.
Per tutte queste ragioni (e probabilmente per altre ancora che ancora mi sfuggono), ho deciso di raffigurare il prozio Emmerico come se fosse una figura di potere della tradizione congolese; uno Nkondi-Boso diciamo. E ho deciso di iniziare a farlo realizzando una prova in cartapesta, di cui ho cominciato a realizzare con carta, nastro adesivo e fil di ferro la struttura. La figura sarà poi allestita e decorata, “attivata” spiritualmente insomma, con diversi materiali come immagini e copie di documenti, che attestano diversi momenti della sua vicenda personale, familiare e politica.





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