Mi scuso, no, non lo faccio davvero. Ecco, il problema è che non chiedo mai perdono per me stessa, ma ogni tanto ci penso, per qualche frazione di secondo, e comincio a chiedermi se non dovrei farlo, ma non lo faccio, ovviamente. E mi sembra che proprio questa consapevolezza mi faccia diventare ancora più insopportabile agli occhi degli altri, il che, per la cronaca, è una cosa che non mi interessa particolarmente. Non è che non lo so, anzi, lo so benissimo: sono una stronza. Ma è il “come” che mi disturba. Il fatto che questa etichetta non mi permetta di sfuggire a una definizione. Non è che la mia stronza sia un’idea “evidente”, tutt’altro. È più una sensazione, come un odore che non è mai chiaramente individuabile, un disagio che aleggia nell’aria, che arriva quando qualcuno dice “sei una stronza”, ma lo dice con un sorriso di complicità, come se fosse una specie di cortesia che ammette a malapena la verità di ciò che è: una dichiarazione non detta. E a quel punto non posso fare a meno di chiedermi, davvero, ma come si fa a non vedere tutto il resto? Come si fa a non accorgersi di ciò che ci circonda, di quella piccola, insostenibile, miserabile realtà che non vogliamo riconoscere?
Non voglio fare la persona che si lamenta per la sua sfortuna o parlare del passato, perché io sono stata viziata, amata, curata in ogni modo possibile, eppure, nonostante tutto questo, sono comunque una stronza. Mi trovo a pensare che la gente mi veda come una “donna difficile”, e lo so che mi considerano complicata, ma quello che non riescono a capire è che io sono l’unica che non fa finta di niente. La verità è che sono troppo consapevole del marcio che c’è intorno, e quello che mi fa veramente incazzare è che gli altri non lo vedono. Il peggio è che fingono di non farlo. E quella finta distrazione è ciò che mi rende insopportabile agli occhi di chi mi sta intorno.
La gente, lo so, si chiede come mai sono sempre così tagliente. È una reazione istintiva, una specie di protezione. Lo capisco, veramente. Voglio dire, io stessa non sono immune a questa domanda. Non posso evitare di pensarci quando qualcuno mi fa una domanda innocente, tipo “Come va?”, come se fosse davvero una domanda interessante, come se ci fosse davvero una risposta che potesse esprimere qualcosa di utile, ma poi mi trovo a rispondere in modo esagerato, a dire cose che non dovrei dire, cose che gli altri non sanno come gestire. E poi succede quello che succede sempre: il silenzio. Quel silenzio che arriva quando ho spinto troppo oltre. Quando, inevitabilmente, arrivo a dire qualcosa da cui non si può tornare indietro a cancellare. Non è colpa mia, è che non riesco a non vedere. E se vedo qualcosa, la dico. Sempre.
Voglio dire, non posso, davvero, fare finta di non vedere la maschera che tutti indossano, le parole vuote e sprecate in ogni conversazione, le piccole ipocrisie che vengono dette per coprire i difetti che ognuno di noi ha – per non ammettere che siamo tutti un po’ perduti – e questo è il motivo per cui mi sento così stanca. Non stanca nel senso fisico del termine, ma nel senso che non riesco a trovare pace in tutto questo, nel senso che non riesco ad abbassare mai la guardia, e mi chiedo, e continuo a chiedermelo: perché non posso essere come gli altri? Perché non posso semplicemente sorridere e fare finta che tutto vada bene? Perché mi devo sempre mettere in discussione?
Non è che mi faccia piacere essere quella che “non ha paura di dire la verità”. Semplicemente è che non posso fare altro. Non posso fare a meno di dire la verità. E non c’è nulla di peggio di quel momento in cui te ne accorgi, quando sei lì, in mezzo alla conversazione, e vedi gli altri che annuiscono, che ti dicono che sì, hai ragione, ma in realtà lo pensano con quel tono di voce che ti fa capire che non capiscono davvero nulla. E io, sì, lo so che potrei semplicemente smettere di parlare, che potrei fare come gli altri, ingoiare tutto, fare quella finta danza della cordialità e della cortesia, ma il punto è che non posso. È un’ossessione, e questa non lascia tregua ma torna, sempre, e ti tiene sveglio la notte e ti costringe a scrivere parole inutili in un diario che non leggerà mai nessuno. Ma io non posso non farlo.
Ogni tanto mi guardo, mentre cammino per strada, e mi vedo come gli altri mi vedono. Una persona che non segue il copione. Una persona che, nel momento stesso in cui dice qualcosa di autentico, si rende conto che ha appena distrutto una facciata, ha appena messo in discussione l’intero sistema di convenzioni che tutti si sforzano di mantenere in piedi. E lì, in quel preciso istante, mi sento… come dire… troppo reale. È un po’ come se stessi diventando trasparente, un difetto in mezzo a un mondo di maschere perfette. La trasparenza fa paura, capisci? Fa paura perché non c’è niente da nascondere. Non c’è nulla che possa venire separato dal resto. È tutto in una volta sola, e forse è per questo che la gente non mi sopporta. Perché la verità, la verità che vedo, è così insopportabile che preferiscono ignorarla. Ed è così che mi trovo a fare sempre il gioco del “non dirlo”, del “fare finta”, come se non avessi mai visto nulla, come se non ci fosse nulla di più facile che essere una di quelle persone che si adattano. Ma non posso, non riesco, non lo so fare.
Non lo so fare, e quindi mi chiedo: perché tutti gli altri ci riescono? Perché posso vedere la maschera di ogni singola persona, posso percepire i loro sforzi per sembrare qualcosa che non sono, ma sono io quella che viene etichettata come stronza? Perché? Perché non posso essere come voi? Ma, è chiaro, la risposta è che non voglio essere come voi, non voglio adattarmi al vostro mondo falso. Non voglio essere quella che sorride e dice “tutto bene” quando tutto dentro di me grida il contrario.
E quindi sono qui. In un mondo dove tutti si nascondono dietro convenzioni inutili, a dire cose che nessuno vuole sentire, a rispondere alle domande che nessuno mi ha fatto, e a fare domande che nessuno vuole davvero ascoltare. E continuo a riflettere. E continuo a non trovare risposta. Ma, ecco, questo è il punto, no? Non c’è mai risposta, non c’è mai una risposta completa. Eppure continuo a pensare, e continuo a dire, perché se non lo facessi, non sarei più me. Sarebbe come arrendersi. E io non posso arrendermi. Non posso.
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