Sono trafitto da sette spade, che attraversando il torace, lacerano i tessuti, in particolare il pericardio e il cuore. Lo stomaco l’ho perso da tempo, con l’innocenza della fanciullezza e la sfrontatezza dei miei vent’anni. I peli sulla lingua, invece, non sono mai cresciuti, motivo per cui sono cresciuto in fretta, sfrontato e ribelle. A diciotto anni, mi innamorai di una puttana, che aveva le gambe piegate ad arco, ma mi voleva bene, come solo una puttana sa fare. Aveva due occhi neri come bottoni e braccia corte, a tal punto, che le mani non le ho mai vedute oltre le maniche. La bocca carnosa aveva, con gli spigoli rivolti all’insù, tanto da sembrare sempre sorridente oltre ogni misura. A diciotto anni ero ribelle, come solo a quell’età si può essere, e tamburellavo con le dita ogni oggetto di latta, come un percussionista, ma ero solo iperattivo nell’anima.
La mia anima, ora, è un campo arso dal fuoco sacro, un lembo di terra che la pioggia non bagna e che il sole non scalda più. Sono rimasto, o forse sono diventato, un viandante senza meta, un nomade in un deserto d’idee, con i piedi nudi che sanguinano sui ciottoli taglienti delle antiche verità infrante. Al mio passaggio, il vento solleva polveri di memoria che si infilano negli occhi come aghi, pungendo e risvegliando visioni che preferirei dimenticare.
Eppure, sotto la crosta di questo deserto, qualcosa pulsa. È la linfa di un albero invisibile, un Yggdrasil capovolto, le cui radici si nutrono delle lacrime versate dai giganti in esilio. Ogni spada che mi trafigge è un ramo di quell’albero, un ponte tra i mondi, e mentre sanguino, sento crescere dentro di me un’antica foresta simbolica. Gli animali selvatici si risvegliano nei miei pensieri: un lupo ulula il nome della luna, un corvo vola con un messaggio che non so leggere, una serpe si avvolge attorno al mio cuore trafitto e sussurra segreti mai dimenticati.
Nel cielo sopra di me, il tempo si dissolve. Il sole e la luna danzano insieme. Ogni passo che compio è un’offerta alla terra, un sacrificio silenzioso che il vento raccoglie e porta lontano, verso l’orizzonte. Ho perso l’aspetto da uomo; sono un ritmo, un battito che si fonde con il respiro del mondo.
La puttana dai bottoni neri mi appare in sogno, con le mani ancora nascoste, e mi dice: “Le mani che non hai mai visto sono le mani del destino. Le nascondo per non mostrarti quanto forte stringono le redini della tua vita.” La sua voce è il canto delle sirene, il richiamo degli abissi.
Mi sveglio in una radura che non ricordo di aver attraversato, circondato da alberi che sussurrano nomi antichi, mai pronunciati. L’aria è satura di resina e di preghiere dimenticate. Il tamburellare delle mie dita è diventato il battito di tamburi lontani, come quelli di un rito tribale che richiama spiriti antichi. Chiudo gli occhi e vedo immagini sovrapposte: templi crollati, altari insanguinati, danze selvagge sotto un cielo cremisi.
Non c’è più confine tra il sogno e la realtà, tra il sacro e il profano. E così, trafitto e sanguinante, continuo il mio cammino, seguendo il richiamo di un corno che riecheggia nella notte eterna, sperando che, al termine del viaggio, ci sia un’alba pronta ad accogliermi con il sorriso di una puttana dai bottoni neri e dalle mani nascoste.


[ SiteLink : GiuseppeTecce.com ]

[ Immagine in evidenza : Miles Johnston ]

Una replica a “Giuseppe Tecce – Trafitto da sette spade”

  1. Testo intrigante, in poche righe il sofferto percorso di tanti che tardi scoprono mani che non si vedono ma tirano i fili della vita.

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