Nel 2010 mio padre si ammalò: tumore al pancreas. Aveva 85 anni, non era giovane ma neanche poi tanto vecchio, avrebbe potuto vivere ancora cinque, dieci anni, e soprattutto io non ero pronta. Non ero pronta a perderlo. Era l’uomo che amavo, l’uomo della mia vita. Certo, avevo mio marito e mio figlio, e amavo moltissimo anche loro, ma con mio padre non c’era gara. E dire che non era neanche particolarmente amabile: non importa. Mi bastava vederlo là, sulla sua poltrona, le mani piene di macchie, il viso ancora bello, il neo in rilievo sotto l’occhio destro che era diventato un’escrescenza un po’ ripugnante, le labbra sottili, la sigaretta in mano, per sentirmi stringere il cuore.

A dispetto di quel che si dice, che negli anziani il cancro proceda con lentezza (“farà prima a morire di vecchiaia”, diceva la saggezza popolare, come se poi di vecchiaia si morisse), il suo agì con determinazione e rapidità, riducendolo in pochi mesi a un mucchietto d’ossa e portandolo a finire i suoi giorni nella disperazione. Ero l’unica a potermi prendere cura di lui e di mia madre: mio fratello Piero, il primogenito, era morto giovane, in un incidente di moto, e mia sorella di mezzo, Gaia, viveva in Canada da molti anni. C’ero soltanto io, la piccolina di casa, e a me toccava assumermi l’onere. All’epoca lavoravo, insegnavo Storia all’istituto tecnico, e ovviamente avevo anch’io una famiglia, perciò il tempo che potevo dedicare ai miei genitori non era molto, ma cercavo di farmelo bastare. Prendevo gli appuntamenti, andavo in farmacia, facevo la spesa, accompagnavo mio padre alle visite mediche, e non passava giorno senza che facessi una scappata da loro, nella vecchia casa in cui avevo abitato anch’io, prima di sposarmi.
Da che ho memoria, erano sempre stati inseparabili: a parte quando erano al lavoro, erano insieme, simbiotici, appiccicati come cozze, e passavano il tempo a darsi sulla voce l’un l’altro. Infinite erano le ragioni per cui discutevano, dall’educazione dei figli a cosa preparare per cena, al nome della persona che avevano incontrato per strada e li aveva salutati, alle esatte parole che aveva pronunciato un politico alla televisione. Erano entrambi testardi e ognuno si accaniva sulla sua idea senza cedere di un millimetro, per quanto brillanti fossero le argomentazioni portate dall’interlocutore. Era il loro modo di stare insieme, un modo come un altro, che io avevo sempre trovato terrificante, ma che indubbiamente presentava notevoli vantaggi: tenere vivo il rapporto, avere sempre qualcosa di cui parlare, esercitare l’arte della retorica, scongiurare il pericolo di cadere nell’afasia e nella demenza.
Arrivavo nel tardo pomeriggio e aprivo la porta con le mie chiavi: li trovavo ognuno alla sua postazione, lui nella poltrona di pelle messa ad angolo accanto alla finestra, lei sul divano con un lavoro a maglia abbandonato al suo fianco, entrambi accigliati, immusoniti.
«Giungi a proposito, mia cara», mi diceva mio padre, che amava parlare forbito. «Tua madre e io stavamo discutendo sull’anno di uscita di una pellicola che abbiamo visto al cinema da fidanzati, Eva contro Eva, con Bette Davis: 1949, dice tua madre, 1950, dico io. Potresti interrogare il tuo telefono tanto intelligente?»
Odiavo essere chiamata ad arbitrare le loro discussioni, essere costretta a dar ragione all’uno o all’altra, perciò fingevo di aver dimenticato a casa il mio iPhone, regalo di mio marito per i 20 anni del nostro matrimonio (doveva avere qualcosa da farsi perdonare, nessuno me lo toglie dalla mente), ma il più delle volte mi toccava dirimere la controversia grazie all’autorità indiscussa di Wikipedia. Mio padre manteneva in ogni caso la sua faccia da poker, limitandosi ad accennare un sorrisino sbieco in caso di vittoria o a stringere le labbra nel caso opposto. Mia madre, al contrario, era incapace di dissimulare, perciò gongolava quando risultava che la ragione fosse dalla sua e metteva il broncio se l’enciclopedia online le dava torto. Risolta la questione del giorno mi sedevo sul divano accanto al babbo, mentre mia madre ne approfittava per andare in cucina a farsi un caffè. Sul tavolino da fumo c’era sempre un libro accanto al quale era posata una lente d’ingrandimento: mio padre ci vedeva pochissimo, una cataratta recidiva gli offuscava quasi completamente un occhio e neanche l’altro se la passava tanto bene, ma non aveva ancora rinunciato alla lettura, da sempre il suo principale passatempo, insieme al gioco delle carte, e per decifrare i caratteri si aiutava con la lente. La passione per la letteratura ci aveva sempre accomunati, o meglio, era lui che l’aveva trasmessa a me, e la maggior parte delle nostre conversazioni verteva sui libri. Passavamo ore a commentare la trama dei nostri romanzi preferiti e il comportamento dei personaggi, dei quali parlavamo come se si trattasse di nostri amici comuni, persone in carne e ossa di cui conoscevamo perfettamente il carattere e i gusti.
«Cosa stai leggendo?»
«Grandi speranze.»
«Credevo che l’avessi già letto!»
«Certamente, molti anni fa, ma non ricordo una sola parola, perciò è come se lo leggessi per la prima volta.»
Parlammo un po’ di Pip e della sua terribile sorella, di Miss Havisham, del suo vestito da sposa, poi gli dissi che avrei fatto un salto in cucina per vedere cosa ne fosse stato della mamma. Alle sue condizioni di salute non accennammo, non amava parlarne, né voleva sentirsi dire che era malato, o peggio ancora, che era vecchio: preferiva di gran lunga rifugiarsi in quel mondo che gli autori da lui amati avevano creato per lui, per farlo svagare, per distrarlo dalle asprezze della vita, e come dargli torto? Mio padre aveva avuto un’infanzia difficile, aveva perso la mamma in giovanissima età e il figlio primogenito, ora era gravemente ammalato e vicino a morire. Lo sapeva, ma non voleva sentirne parlare. Meglio Pip e Miss Havisham.
In cucina, mia madre sedeva al tavolo bevendo il caffè e cercando di risolvere uno schema di parole crociate. Accanto a sé teneva i tre volumi dell’Universale Garzanti, che consultava quando non riusciva a trovare la parola giusta da inserire nello schema.
«Lo sai che stai barando, vero, mamma?»
Mamma fece spallucce. I suoi piedi calzati nelle ciabatte battevano il ritmo sul pavimento.
«Non so più come fare con tuo padre. È insopportabile! Testardo, bisbetico, vuol sempre aver ragione lui. Non mi dà pace.»
«È malato…», tentavo di smorzare.
«Era così anche prima. Tu non sai quello che ho passato, a fianco a quell’uomo tutta la vita!»
Potevo immaginarlo, ma non avevo interesse a rinfocolare il malumore di mia madre.
«Su, su», le dissi. «Ci saranno pur stati dei momenti belli, no?»
«Che ti devo dire… all’inizio, forse. Ero così innamorata… Che stupida!»
«Dici così ora perché stai attraversando un momento difficile, ma sono sicura che non lo pensi veramente.»
Mamma fece una smorfia. Il ritmo dei suoi piedi sul pavimento accelerò.
«Accidenti a quel giorno», disse.





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