All’inizio arrivò in punta di piedi, insinuandosi nelle nostre vite quasi senza che ce ne accorgessimo.
Poi si fece più prepotente, abbattendo ogni barriera e portandoci via la serenità, la salute, ma soprattutto le persone che amavamo.
Smettemmo di cantare dai balconi, come avevamo preso a fare per sentirci vicini. Anche la convinzione che ne saremmo usciti migliori cominciò a vacillare.
Le nostre vite si misero in pausa, i sogni e i progetti accantonati, mentre il tempo continuava a scorrere. Inesorabile.
Ora, davanti allo specchio, conto le nuove rughe. È questo ciò che ho guadagnato, a fronte di tutto quello che ho perduto: persone, sonno, sorrisi, voglia di fare.
Ma per fortuna è arrivato Byron. Così lo chiamo io.
Un gatto rossiccio, rimasto senza padrone, che da allora si aggira tra le nostre case. Non so dove vada a dormire, né chi lo nutra, perché da me non vuole cibo.
Arriva ogni giorno, si siede sulla solita panchina di pietra e aspetta che io mi accorga di lui. Quando apro la porta, miagola. È un richiamo irresistibile.
Mi avvicino e inizia il nostro rituale, nato poco a poco, mentre la sua diffidenza lasciava spazio alla fiducia. Mi siedo accanto a lui e Byron si struscia piano, accarezzandomi l’anima con il suo ron-ron mentre io sfioro il suo morbido pelo fulvo. Gli parlo e lui mi risponde.
Un orfano di padrone e un’orfana di felicità, che hanno trovato un modo per andare avanti. Insieme.





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