Io sono una che ha sempre amato ridere. La persona con cui ho riso di più, nella mia vita, è forse la mia amica Monica, a proposito della quale era famoso, in famiglia, il mio commento ai racconti che facevo sulle nostre mattinate scolastiche: «Abbiamo fatto un sacco di risate!»

Eravamo due scolare indisciplinate, al liceo e persino all’università, capaci di farci buttar fuori dall’aula perché nel bel mezzo di una lezione eravamo prese da una ridarella irrefrenabile. Ancora adesso quando ci vediamo, io e Monica, basta che ci guardiamo o pronunciamo qualche parola chiave per scoppiare a ridere anche nelle circostanze meno opportune.

Ridevo tanto anche con mia sorella Daniela, la cui perdita, in mezzo a tanti lutti che ho dovuto sperimentare nella mia vita, resta forse la più dolorosa. Io, lei e suo marito Gianluca eravamo spietati nel prenderci gioco di chiunque, amici, familiari e passanti sconosciuti, imitando voci e posture, riferendo aneddoti, ma senza cattiveria, così, solo per divertimento. Dopo la morte di Daniela ho riso molto meno, anzi, per diversi anni non ho riso affatto.

Ci sono altre persone con cui ho condiviso la mia attitudine al riso: Matteo, un mio alunno divertentissimo, col quale ci facevamo matte risate a proposito di Giordano Bruno, Tommaso Campanella e le Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri. Lo so, sono argomenti serissimi, ma noi riuscivamo a trovare motivi di divertimento in certe parole che ci suonavano buffe, nel nome stesso del filosofo calabrese, nel termine “smoglio” che indicava il residuo che restava all’interno di un calderone usato per il lavaggio dei panni e che venne preso per una pozione venefica dai giudici nel processo contro Gian Giacomo Mora. Un altro complice di risate è Massimiliano, un mio amico scrittore, che vedo un paio di volte l’anno e col quale rido di gusto, in questo caso non senza malignità. E naturalmente c’è Dario, mio nipote, che mi fa ridere tantissimo.

Un’altra cosa che mi fa ridere a crepapelle sono certe frasi, certi giochi di parole che a volte trovo nei libri. Certe filastrocche di Toti Scialoja e di Gianni Rodari, per esempio, hanno il potere di farmi sbellicare. Un altro autore che trovo irresistibile è Paolo Nori. Paolo Nori mi piace per moltissime ragioni, ma quello che mi fa impazzire è trovare, di tanto in tanto, certe frasi o certe considerazioni nei suoi libri che mi suscitano risate irrefrenabili. Una volta in un suo romanzo, non ricordo più quale, c’era un personaggio mi pare bulgaro, e per rendere la sua parlata Nori aveva sostituito tutte le vocali con delle o, per cui venivano fuori frasi del tipo: “sono contonto do vodorvo”, “ondiomo ol rostoronto”, insomma una specie di “Goroboldo fo foroto”, però più divertente perché inaspettato. Giorni fa leggevo il suo ultimo romanzo, Chiudo la porta e urlo, nel quale si parla del poeta Raffaello Baldini e, come sempre, si parla molto anche di Paolo Nori, di sua moglie Togliatti e di sua figlia Battaglia. È chiaro che Togliatti e Battaglia sono due soprannomi che lui ha dato alle sue donne: la figlia, che ora ha 20 anni, fin da bambina è stata chiamata così dal padre perché particolarmente combattiva; la moglie invece è stata soprannominata Togliatti perché “è convinta di essere il migliore”. In un punto del libro Paolo Nori dice di aver conosciuto tanti anni fa una ragazza chiamata Francesca, che poi sarebbe diventata la sua compagna e la madre di sua figlia: “Ora ha cambiato nome, si chiama Togliatti”, dice, e questa frase mi ha fatto talmente ridere, che ero sola nella stanza e ridevo da sola a voce alta.

Rido per delle sciocchezze, lo so.

Piangere, invece, io sono una che piange poco. Cioè, nella vita mi è capitato di farmi dei gran pianti, però col passare degli anni sono diventata più fredda, forse per proteggermi da troppa sofferenza, e insomma non sono una che si commuove facilmente, non ho la lacrima in tasca. Molte persone quando leggono dei libri molto intensi si vantano di aver pianto come fontane, pianto dall’inizio alla fine, e io davvero non capisco come abbiano fatto. Ricordo di aver pianto per il protagonista de La versione di Barney, che a un certo punto della sua vita diventa un povero demente, ecco, ho pianto per lui, e per Dario Fo, ma solo perché è morto appena dieci giorni dopo che era morto il mio babbo. Ho pianto per una dottoressina della serie E.R. che moriva in seguito a una sparatoria avvenuta dentro il pronto soccorso e mi viene la lacrimuccia quando Robert Redford e Barbra Streisand si corrono incontro sulla spiaggia in Come eravamo e sì, lo ammetto, quando il Principe bacia Biancaneve. Per il resto, non piango mai.

Una replica a “Ridere, piangere Di Marisa Salabelle”

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