
“Ma l’hai fatto davvero tu?”
Quando in prima media a rivolgermi questa domanda fu il mio professore di educazione artistica sapevo che a ispirarlo era un misto di incredulità e compiacimento. Abbastanza comprensibile reagisse in quel modo davanti al primo compito di disegno consegnato da uno sconosciuto undicenne che ritraeva un albero fronzuto, completo di rami nodosi, scaglie, foglie e radici, piegato da impetuose folate di vento. In seguito si guardò bene dal ripeterla quando mi vide con i suoi occhi disegnare direttamente a penna biro su qualsiasi pezzo di carta mi capitasse a tiro. Anni dopo sentii ripetere quella domanda da alcuni visitatori delle mie prime mostre. Talvolta il quesito veniva posto senza l’inflessione retorica che l’avrebbe fatto passare per un’esclamazione di ironico stupore. Ma anche in quei casi trovavo giustificabile che mi venisse rivolto da persone che non sapevano ancora nulla di me o che faticavano a vedere un’“artista” nell’immagine di un ragazzo vestito in maniera alquanto sobria che non tentava di “sovraesporsi” con atteggiamenti teatrali o provocatori. Spesso, ascoltandomi parlare mentre abbozzavo una vignetta o un ritratto su un foglio, assumevano quasi un’aria di estatico pentimento.
Oggi, nell’epoca dei selfie che segnano il non-tempo dei giorni come le lancette dei secondi su un quadrante vuoto, della vita tartagliata in storie senza storia che evaporano in un giorno, dell’esistenza innalzata a spettacolo da “peep-show”, dei ricordi e dei corpi venduti all’ingrosso sul mercato del voyeurismo, della fama conquistata per caso mostrando tutto sempre e comunque, chi a volte mi indirizza quella domanda lo fa con pochissima retorica. Come se ormai siano più degni di credito personaggi sbucati dal nulla i cui milioni di followers rastrellati in pochi mesi bastano a invalidare la questione della paternità e autenticità dei loro contenuti. In base alla logica del paradosso dell’influencer, l’aver disegnato e dipinto migliaia di opere, scritto decine di libri, diretto altrettanti cortometraggi, documentari e video musicali, composto centinaia di brani senza essere arrivati a totalizzare almeno centomila follower, diventa per assurdo indice di “esibizionismo”, “megalomania” e sospetta “falsità”.
A nessuno di questi nuovi “artisti” che posano sui cofani scintillanti delle Maserati, ballano col costume in due pezzi sul bagnasciuga di un resort a cinque stelle, noleggiano vestiti per sfilare di straforo sulle passerelle dei festival, collezionano foto con i vip, cantano con l’autotune su basi scaricate, postano foto rimaneggiate col Photoshop, si fanno fotografare in personali a pagamento, sentirete mai chiedere “l’hai fatto davvero tu?”.
La religione digitale del Numero che si fa Gregge c’insegna che siamo e valiamo solo in quanto mostriamo.
Mostre ambulanti di veri falsi d’autore.
“Chi vede un gigante esamini prima la posizione del sole e faccia attenzione che non sia l’ombra di un pigmeo.” (Novalis)
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