Da dove arriva questa eco? Ho scoperto in ritardo il femminile di questa parola e forse anche il mio. Ero una di quelle bambine che si fa fatica a capire. Che si vorrebbe arginare con le stanchezze dell’adulto che sospira e ti chiede perché tieni stretto quel palloncino pronto a portarti su. Quando ti accorgi di non avere più ginocchia sbucciate, che la tua Graziella giace arrugginita, e tu non sei più quella bambina, ma continui a perderti in girotondi astratti e distanti dal resto. Quando ti accorgi che chi ti ama vorrebbe succhiartela dal seno quella joie de vivre. Un po’ malinconica, è vero. Un po’ verbosa, altalenante, umorale.

Ogni tanto, devi rallentare” mi dice “Non che tu debba cambiare, ma sei sempre un passo avanti e forse il tuo cervello va veloce e non hai pazienza di attendere che ti si raggiunga“. “Questo mette un po’ sotto pressione…” continua a dirmi. Lei che ho scelto perché mi è parsa audace nelle sue scelte di vita. Mi sento di nuovo bambina, di traverso nello sguardo lontano (seppur amorevole) di mia madre che mi chiede dove siano i miei occhi e i miei pensieri, e mi obbliga a tirarli giù per essere come tutte le bambine della mia età.

Ma ho capelli arruffati, ginocchia sbucciate, ho creato il club degli acchiappafantasmi spacciando un vecchio libro per il diario segreto di una bimba fantasma. Guardo Valeria da dietro la porta del bagno, alle elementari, e mi soffermo sui suoi lucenti capelli biondi e sullo strano gesto di strofinare sapone bianco sulla sua bocca rosa, a ogni ricreazione. Corro da sola. Gioco da sola. E non sempre so come si faccia a fare amicizia. Leggo libri, tanti libri. E scrivo. E disegno. Tanto. Sono infelice, ma inizio a credere che dipenda dallo sguardo di mia madre che pensa che in me ci sia qualcosa di sbagliato. Amorevolmente, sempre. Mi dice di rimettermi in riga, di indossare abiti femminili, di camminare a testa alta, di non dire sempre quello che penso e di non stare sempre con la testa dentro i libri.

…Se non fosse per il suo sguardo e per le parole: “perché sei così?” mentre raccoglie punte tenere di asparagi dalla siepe e io pendo da un albero di limoni. “Così come?” le rispondo a testa in giù. Lei non dice nulla o forse sì. E in qualche modo quel suo modo di guardarmi non l’ha mai deposto del tutto. Così come?

Degenerata come l’arte del ’37. Come qualcosa che pare grottesco perché mostra tutta la gola profonda dell’inquietudine e del disagio senza filtri, orpelli. E se mi guardi negli occhi mi vedi tutta. Fin da bambina. Con quel giro giro tondo quanto è brutto il mondo. Che mi faceva cascare per terra per legge d’attrazione d’umanità. Perché lontana sarei spirata. Come? Così come?

Io sono il mio come adesso. Ho (duramente) conquistato ciò che sono. Il diritto di essere me stessa. Imperfetta, spessa e scomoda. Diretta. Pensano di non ferirmi quando mi scaraventano addosso le loro critiche. Lascio che continuino a guardarmi, mentre tengo il mento su e lo sguardo fisso in un altrove che non ha lacrime, né cedimenti. A pensare che le mie parole, i miei pensieri, la mia incessante voglia di verità e autenticità non facciano di me una stronza. “Stronza e arrogante”, me lo hanno detto. Dicono che devo piegarmi e rimpicciolirmi per passare attraverso la porta. Cedere il poggiabraccio e cercare di pesare il meno possibile, e di essere meno visibile, e di occupare meno spazio. E di stare zitta. E di dire “bene”. “che bello”. “complimenti”.
Ma no. Non fa per me, grazie.
“Così come?”

Sono pur sempre quella bambina. In una parte di me resiste. A testa in giù. Infelice di una infelicità che gli altri mi hanno disegnato addosso. Un cerchio dentro un quadrato. E poi…
Poi ti svegli, col terrore senza un vero motivo.
Anche quello che mi ha condotto qui, tra queste parole e questi ricordi io non so bene che motivo sia.

Chi, di preciso, hai avuto bisogno
di tutti questi anni per perdonare?

Mia madre.
Mio padre.
E io che sono carne in loro.


Margaret Atwood – Su

Ti svegli col terrore
Senza un vero motivo.
La luce del mattino filtra dalla finestra,
con i cinguettio degli uccelli
non riesci a scendere dal letto.

C’è qualcosa nelle lenzuola gualcite
che sporgono dai bordi come foglie
di giungla, le pantofole di spugna
aprono le scure fauci rosa per i tuoi piedi,
la colazione invisibile – ce n’è un pò
nel frigorifero che non ti azzardi
ad aprire – che non ti azzarderai a mangiare.

Cosa te lo impedisce? Il futuro. Il tempo futuro,
immenso come il firmamento.
Ti ci potresti perdere.
No. Non è così semplice. Il passato, la sua densità
e avvenimenti annegati che ti spingono giù,
come acqua del mare, come gelatina
che ti riempie i polmoni invece dell’aria.

Ma lascia perdere, alziamoci.
Prova a muovere il braccio.
Prova a muovere la testa.
Fa’ finta che la casa sia in fiamme
e che se non fuggi bruci.
No, non serve a nulla.
Non ha mai funzionato.

Da dove arriva, questa eco,
questo enorme No che ti circonda,
silenzioso come le pieghe delle tende gialle
muto come il vivace

vaso messicano col suo carico
di fiori mummificati?
(Li hai scelti tu i colori solari,
non i toni secchi, neutri, dell’ombra.
Dio sa se ci hai provato).

Eccone una buona:
sdraiata sul letto di morte.
Ti resta un’ora da vivere.
Chi, di preciso, hai avuto bisogno
di tutti questi anni per perdonare?


Margaret Atwood – Up

You wake up filled with dread.
There seems no reason for it.
Morning light sifts through the window,
there is birdsong,
you can’t get out of bed.

It’s something about the crumpled sheets
hanging over the edge like jungle
foliage, the terry slippers gaping
their dark pink mouths for your feet,
the unseen breakfast–some of it
in the refrigerator you do not dare
to open–you will not dare to eat.

What prevents you? The future. The future tense,
immense as outer space.
You could get lost there.
No. Nothing so simple. The past, its density
and drowned events pressing you down,
like sea water, like gelatin
filling your lungs instead of air.

Forget all that and let’s get up.
Try moving your arm.
Try moving your head.
Pretend the house is on fire
and you must run or burn.
No, that one’s useless.
It’s never worked before.

Where is it coming form, this echo,
this huge No that surrounds you,
silent as the folds of the yellow
curtains, mute as the cheerful

Mexican bowl with its cargo
of mummified flowers?
(You chose the colours of the sun,
not the dried neutrals of shadow.
God knows you’ve tried.)

Now here’s a good one:
you’re lying on your deathbed.
You have one hour to live.
Who is it, exactly, you have needed
all these years to forgive?


[ BlogLink : Isola delle Correnti ]

3 risposte a “Telleena Sbacchi – Chi, di preciso, hai avuto bisogno in tutti questi anni di perdonare?”

  1. La fantastica Atwood! Irraggiungibile „ Il racconto dell’Ancella „. Grazie S.J.Terzo

    Piace a 1 persona

    1. Lasciami dire che il merito è di Telleena, sia per la riflessione che per la poesia della Atwood, io ho solo molto apprezzato come te e ripubblicato 😊
      Grazie!!!

      Piace a 1 persona

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