Mio padre, non volevo vederlo polvere.
Quello che restava di lui
erano i gesti, le somiglianze, la luce—
tanto piena, traboccante,
che verrebbe da chiedersi perché
il dio dell’amore
semini anche la piaga,
perché chi guarisce
porti anche la morte,
sia pure con ferocia o fredda tristezza.
Siamo sotto rami che mutano in archi—
ignari che i nostri petti
siano i soli bersagli.
E poi, per difendersi,
c’è chi impugna una freccia d’arbusto
o una pistola di gomma, sparando
alla luna di giorno.
L’uomo, prima di soffrire, ha bisogno di vivere.
Mio padre, non volevo vederlo polvere.
Dio sa chi sono — e sono qui,
a colpire il chiarore
con occhi stretti dal sole.
E tutt’intorno,
la tradizione del senso comune,
alla morale io dico: e il male, perché?
Dove non si volge Dio,
nessuna freccia
indica la via,
mentre fendiamo sentieri, scelte, domande,
nel fitto del verde, o scivoliamo
tra lamiere nei parcheggi.
I reticoli si infittiscono,
il corpo è una cavità.
E infine, devi ammetterlo: esiste l’anima.
Anche se i piccoli,
i cuccioli di Dio,
sentono alta la febbre,
provano a rincorrere spot,
a soffrire piuttosto che definire
le voci lontane che li chiamano —
prima dolci, come il canto
di chi consola, poi
brucianti, come un ordine divino.
Mio padre non è polvere.
Quello che resta di lui
sono i gesti, le somiglianze,
la luce — tanto piena, traboccante.
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[ Immagine in evidenza : Fotografia di Davit Barqaia. Particolare. ]





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