Berta non filava affatto.
Aveva filato solo quando, ancora bambina dalle dita morbide, costringeva sua madre a portarla al “ristorante dei piccoli”. Così chiamava la mensa della scuola. Amava quel luogo intriso di odore acidulo di penne al pomodoro, così pieno di bavaglini macchiati, musetti sporchi, palline di pane lanciate di nascosto e bicchieri colorati. Ecco, era alla scuola dell’infanzia che aveva imparato a filare.
Ma il fuso era stato accantonato poco dopo, nell’umidità della cantina.
Man mano che il suo corpo cresceva, negli occhi vispi si facevano strada la curiosità, la voglia di guardarsi intorno, di scoprire il mondo, di avventurarsi per contrade mai viste. Era spinta dalla sola forza delle ginocchia perennemente sbucciate e accompagnata dal tintinnio del campanello della bicicletta. Vestiti leggeri al vento, sandali consumati, borsetta di cuoio a tracolla, e via: questo era la piccola Berta, un visino dalla pelle scurita dal sole e dalla polvere.
Da allora ne erano passati di anni e Berta si era trasformata in una donna in carriera: tailleur, capelli tirati, tacchi vertiginosi, occhiali da intellettuale e valigia sempre pronta al seguito.
Tuttavia, qualcosa filava e qualcosa no. Berta era affidabile, precisa, sicura, quasi impeccabile, soprattutto dal punto di vista professionale. Un solo aspetto di sé faticava davvero a domare: la sbadataggine. Dimenticava cose in continuazione, presa com’era dai suoi pensieri.
E così, quasi ogni volta che si spostava per lavoro, lasciava inavvertitamente pezzi di sé sul seggiolino accanto. Un foulard, un biglietto di viaggio, il pranzo, una cartolina già scritta.
Sembrava che avesse bisogno di lasciare un segno. In fondo, non le dispiaceva pensare che sconosciuti viaggiatori, imbattendosi in qualcosa di suo, avrebbero letto brevi frasi tra le righe di una ignota esistenza. Avrebbero pensato a lei senza sapere chi fosse; l’avrebbero, in qualche modo, conosciuta senza mai incontrarla.
Una volta, Berta dimenticò un libro.
Dopo aver sorriso ancora una volta per la sua pervasiva distrazione, fantasticò sulla sorte di quell’indispensabile compagno silenzioso. Qualcuno, sul volo successivo, lo avrebbe preso e ne avrebbe letto le prime pagine. Qualcun altro, ancora dopo, lo avrebbe aperto a caso, per cercare, fiducioso, la soluzione a un problema. Nessuno avrebbe osato appropriarsene; al contrario, ciascuno, dopo averlo fatto suo per qualche ora, lo avrebbe accuratamente riposto nella tasca dietro lo schienale.
Quel libro avrebbe incontrato i passeggeri più disparati, ne avrebbe accolto la curiosità, saziato l’immaginazione, e infine se ne sarebbe tornato al suo giaciglio segnato da qualche impronta in più e da un numero crescente di sgualciture. Avrebbe percorso, indisturbato, migliaia di chilometri, avrebbe sorvolato immensi spazi turchesi, attraversato lucenti mari e sconfinati oceani.
Quel libro si sarebbe trasformato in un filo: il filo che unisce il mondo da un capo all’altro.
Berta stava ancora filando.
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