La stanza odora di sigarette spente da giorni e deodorante al limone artificiale, di quelli che cercano di coprire il marcio ma lo amplificano. Sul soffitto, un neon ronza come un insetto morente, spandendo una luce giallastra che sembra voler disegnare il mio contorno e cancellarlo nello stesso istante. È una stanza anonima, sterilmente vuota, il genere di posto dove entri e capisci subito che non ti aspetta niente di buono.

“Siediti,” dice il tizio in camice bianco. Indica una poltrona di vinile verde consumato, la seduta sfondata come un occhio cieco. Mi ci infilo, ma la poltrona mi inghiotte. Le ginocchia puntano verso l’alto.

Lui scrive qualcosa sul suo taccuino senza guardarmi. Penna a sfera. Il rumore graffia l’aria come unghie su un foglio di carta vetrata.

“Quando è iniziato?” chiede, senza specificare cosa.

Ecco il punto: non è iniziato. Non c’è mai stato un prima o un dopo. Io sono. Sono seduto su questa maledetta poltrona. Sono qui, e il mio respiro condensa nell’aria fredda. Il mio cuore batte. Le mie mani scavano nel vinile.

“Non so cosa intenda,” dico.

Lui alza finalmente lo sguardo. Occhi piccoli, annacquati, come se qualcuno avesse cercato di lavarci via la vita.

“Quando hai iniziato a sentirti… immaginario?”

Immaginario. Me l’ha già detto un tizio al bar, un anno fa. Mi fissava mentre bevevo una birra calda, dicendo che ero troppo tranquillo, troppo fermo, troppo niente per essere vero. Ma non è il mio problema se il mondo non riesce a gestire la mia esistenza. Non ho bisogno di conferme. Sono qui.

“Non mi sento immaginario,” dico. “Sono seduto davanti a lei, no?”

Lui sorride, ma è un sorriso con cui ti spaccano i denti, non uno che te li mostra. Prende appunti senza nemmeno guardare il foglio.

“Eppure,” dice, “non c’è traccia di te. Nessun certificato di nascita, nessuna scuola frequentata, nessun lavoro. Nemmeno una multa per divieto di sosta. Non esisti.”

“Non esisto… per chi?” Lo dico piano, ma sento che la mia voce si arrampica sulle pareti della stanza, lasciando segni.

Lui fa un altro sorriso, come se avessi centrato il punto. Non mi risponde. Fa scivolare gli occhi verso il suo taccuino.

“E allora?” aggiungo. “Solo perché non ho un codice fiscale non vuol dire che non sono reale. Non serve che qualcuno mi registri per dire che esisto.”

“Sei convinto di essere reale,” dice.

“Convinto? Io sono. Tocchi la poltrona. Tocchi il vinile dove mi siedo. Lo sente, vero? Questo è reale. Sono reale.”

Lui tace. Scrive qualcosa. Non capisco se è una diagnosi o un epitafio.

“Non hai amici, non hai famiglia,” riprende. “Nessuno che possa confermare che tu sia mai stato qui. Sei un’idea, niente di più.”

Vorrei ridere, ma il vinile sotto di me emette uno strano cigolio, come un grido soffocato. Forse sono le mie mani, che scavano troppo forte.

“Non ho bisogno di conferme. Voi avete bisogno di classificarmi, archiviarmi, mettere un’etichetta. Vi spaventa l’idea che io possa essere qualcosa di diverso. Qualcosa che sfugge alle vostre categorie.”

Non si muove. Il suo sorriso, se possibile, si allarga. È un sorriso che vorresti strappare via con un’unghiata.

“Chi sei?” mi chiede, e per la prima volta sembra incerto.

Mi alzo dalla poltrona. Il vinile grida di nuovo. La luce al neon si abbassa di un tono, o forse è la mia ombra che l’ha inghiottita.

“Sono quello che rimane quando togli tutto il resto,” dico, sporgendomi sulla sua scrivania. “Quando spegni le luci e non c’è nessuno che guarda.”

Lui si irrigidisce. La penna gli cade dalle dita e atterra sul taccuino, sporcando il foglio con un graffio d’inchiostro.

Esco dalla stanza, ma qualcosa mi spinge a voltarmi prima di chiudere la porta. Lui è immobile, la bocca aperta come se volesse dire qualcosa ma non ci riuscisse. Il taccuino è vuoto. Nessuna parola. Nessuna prova.


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3 risposte a “Aurelienne – Non sono immaginario”

  1. Bello anche il video, la canzone che ribadisce la sacralità di …esserci!!!

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  2. J’aime Beaucoup !!!

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  3. Grazie per i commenti 🙂

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