Quando mi sveglio la mattina, non so più se sto andando a scuola o al patibolo. C’è una differenza, certo — la scuola puzza meno di corda e più di deodoranti sintetici e panini freddi — ma il cuore è lo stesso: stretto, rigido, battente in levare come se avesse perso il tempo principale. E poi ci sono loro, i miei studenti, che più li guardo e più mi sembrano icone religiose storte, immagini sacre del disinteresse assoluto. Ma belli, sì, belli da far male. Fragili come ceramica di seconda scelta.

C’è una ragazza, Luna. Ma non lo sa nessuno, che si chiama così. Si fa chiamare con un diminutivo che cambia ogni trimestre: Lu, Lulu, Lù, in base all’umore, al ciclo, al ragazzo che frequenta. Ma io so che si chiama Luna, e non perché l’abbia letto sul registro (l’ho fatto, ma molto dopo), ma perché è lunare nel senso di marea emotiva, assenza intermittente, cratere e luce riflessa. Non ascolta mai. Ma c’è sempre. Capite cosa intendo?

Le sue verifiche sono un campo minato di frasi interrotte, cuoricini disegnati nei margini e citazioni da serie TV che nemmeno Netflix ha il coraggio di consigliare. Della Prima Guerra Mondiale, nulla. Della Storia in generale, meno che nulla. Lei vive in un eterno presente, uno scroll infinito di emozioni vissute all’istante e dimenticate un secondo dopo. E io, che parlo di Sarajevo 1914 con la voce spezzata e i PowerPoint da aggiornare, mi ritrovo a odiarla.

No, non per cattiveria. Ma per riflesso. Perché la riconosco. E riconoscere un alunno è il primo passo verso la sconfitta del docente.

— Luna, puoi ripetere quello che ho appena detto sul trattato di Versailles?

Lei alza lo sguardo come se avesse sentito il mio nome solo ora, come se il mio volto, la mia voce, fossero parte di un sogno interrotto.
— Ha detto qualcosa su… il trattato? Di Versace?
Ride. Il banco accanto ride. Il banco dietro annuisce. Io no.

— Versailles, non Versace. Anche se effettivamente ci fu una sfilata. Di delegazioni.

— Ah. Già.

— Sai almeno chi ha vinto la guerra?

— Noi? — fa, tirando fuori la chewing gum. — O comunque… boh, mica ci siamo più andati in guerra, quindi sarà finita bene.

E lì, in quel momento preciso, ho avuto voglia di cancellare tutto. Storia, programma, ministero, stipendio, preside. Lei no. Lei no, perché in qualche modo Luna è l’unica cosa vera che mi resta in questa lunga e perpetua rappresentazione di finzione didattica. È un errore nel sistema, come me.

Il corridoio si svuota con il solito suono da fine del mondo: sedie che strisciano, zaini che colpiscono gli stipiti, voci che si fondono in una nube sonora informe. Quando il silenzio torna, ha il sapore dell’acqua stagnante. Io rimango lì, alla cattedra, a guardare il file aperto sullo schermo. “Ripasso Prima Guerra Mondiale – Slide 18 di 32.” Un titolo già morto.

Lei entra otto minuti dopo l’orario. Porta un cappuccio grande quanto una tenda da campeggio, le cuffiette penzolanti, le scarpe sfondate. Non dice “scusa”. Non dice niente. Si siede al secondo banco da sinistra, quello su cui un tempo c’era incisa la scritta “AMO DEBORAH 4EVER” che ora sembra “AMO DEBOLE”.

— Allora, Luna — inizio, ma la voce mi esce stanca. Più di me.

— Le ho detto che non mi chiamo Luna.

— E io ti dico che invece sì.
Silenzio.
— Lo so, lo so che ti chiami così. Anche se ti fai chiamare altro. Ma questo non è un quiz. È solo una lezione privata. Una di quelle in cui, almeno in teoria, uno dovrebbe imparare qualcosa.

Lei si stiracchia. Fa una smorfia. Tira fuori il quaderno come se stesse estraendo un dente. Le sue unghie sono blu elettrico, una è spezzata.

— Ok, prof. Mi dica di ‘sta guerra. Vediamo se oggi mi entra in testa.

E lì, per un attimo, mi illudo. Una crepa nella sua indifferenza. Mi aggrappo.

— 1914. Un colpo di pistola. Gavrilo Princip spara all’arciduca Francesco Ferdinando. Hai mai sparato qualcosa, Luna?

Lei mi guarda. Mi guarda davvero, per la prima volta da… forse sempre.

— Una volta ho tirato un bicchiere contro un muro. Vale?

— Se ha lasciato una traccia, vale.

— Non l’ha lasciata. Era plastica.

Sorrido. Non dovrei. Ma lo faccio.
Fuori, la luce cala. Il neon sopra di noi ronza come una mosca ubriaca.

— Dice che è importante? Cioè… sta cosa del tizio ammazzato. Perché poi è guerra mondiale, no?

— Non è mai solo la pistola. È la miccia. Il problema è sempre la polvere da sparo sotto. Le alleanze, i nazionalismi, i carri armati. Ma alla fine è tutto molto umano. È sempre un ragazzo incazzato, un treno, un’estate troppo calda.

— E noi?

— Noi siamo dopo. Siamo quelli che studiano le ceneri e fanno finta che non sia successo niente. O peggio: che sia stato inevitabile.

Lei annuisce piano. Un movimento quasi impercettibile. Poi tira fuori il telefono.

— Posso almeno registrare? Così poi ci metto un filtro carino sopra.

— No.
— Ma…

— Questa te la ricordi con la testa, non con Instagram.

— Allora me la dimentico. Già lo so.

Silenzio. Poi, quasi senza guardarmi:

— Prof, ma lei… perché fa questo lavoro?

E lì mi manca il respiro. Non perché la domanda sia nuova. Ma perché oggi non ho scudi.

— Non lo so più. Forse perché è l’unico posto dove ancora riesco a vedere il disastro da vicino. Il prima del dopo. Lo spreco. La bellezza.

— Tipo noi?

— Sì. Tipo voi.


Un anno dopo.
Quella primavera arrivò come tutte le primavere: troppo tardi e troppo presto. I ciliegi dietro la scuola fiorivano come se qualcuno li pagasse per farlo, mentre dentro le aule l’umore generale era quello di un dopoguerra senza gloria. Gli studenti — i miei studenti — si muovevano come se la fine dell’anno fosse la fine di tutto. Ma senza la dignità del collasso: solo con l’ansia dei quiz a crocette.

Luna era rimasta. Non bocciata, non promossa con lode. Solo rimasta. C’era ancora, identica e mutata. I capelli ora li portava rasati da un lato, con l’altro a coprire metà volto. Le unghie erano tornate neutre. Aveva smesso con i cuoricini nei margini, ma non con le assenze. Parlava meno, ma ascoltava meglio. Oppure fingeva meglio di ascoltare, che in fondo è quasi la stessa cosa.

La rivedo ancora entrare in aula, quel giorno. Pomeriggio, come sempre. Recupero. Ancora lei. Ancora io.

— Salve, prof.

— Non sei in ritardo. Mi stai destabilizzando.

— Forse sto maturando. O forse avevo bisogno di aria condizionata.

Si siede. Stavolta è lei a parlare per prima.

— Lo sa che non mi ricordo niente della guerra? Né quella mondiale, né quella del Golfo, né… nessuna. Ma certe frasi sue, tipo quella del “prima del dopo”, me le sogno la notte.

— Sono il tuo incubo?

— Peggio. Il mio sottofondo.

Rimango zitto. Lei guarda fuori, oltre la finestra. La voce le esce strana, piena ma quasi stonata.

— Ho lasciato Luca. Quello di quinta F. Quello con i brufoli e la moto. Mi faceva sentire come un errore di grammatica.

— Ti correggeva?

— No. Peggio. Mi lasciava così com’ero. E io non sono fatta per rimanere com’ero.

— Quanti anni hai, Luna?

— Diciotto e tre giorni.
— E già parli come una quarantenne?

— Meglio che non parlare affatto.

Pausa. Il ventilatore gira lentamente. Gli orologi sembrano congelati. Io la guardo, lei guarda me. Ma senza ambiguità. Qui non c’è nulla di morboso. Solo una consapevolezza silenziosa: che tra le nostre due fragilità si è creato un ponte, invisibile e sottile, che però tiene.

— Allora, oggi cosa facciamo? Parliamo della seconda guerra?

— No. Oggi parliamo di te.

Lei ride, con la voce rotta.

— Ma non è storia.

— Appunto.

Silenzio. Poi, con lentezza, comincia a parlare. Del padre scomparso. Della madre che urla la sera. Dei tagli fatti alle gambe, quelli che non si vedono sotto i jeans. Dei giorni in cui odia il suo corpo. Di quelli in cui odia tutti. Di quelli in cui, inspiegabilmente, ama anche me. Ma non come si ama un uomo. Come si ama una cosa viva che resiste.

E io ascolto. E prendo appunti, ma non su carta. Su qualcosa di più molle e doloroso: la mia memoria.

— Prof… ma lei lo sa che non passerò l’esame, vero?

— Sì. Ma tu passerai lo stesso.

— A cosa?

— Alla prossima versione di te.

— Ma senza la storia?

— Senza la storia. O forse dentro una che non riesci ancora a leggere.

Epilogo – Tre anni dopo, nel retro di un armadio, in una cartellina dimenticata

Il tempo scolastico non si misura in mesi. Si misura in facce. Volti che si ripetono con piccole variazioni: occhi più stanchi, sopracciglia più alte, lo stesso modo di dire “prof posso andare in bagno” come se fosse una domanda universale. Quando Luna è uscita dalla mia vita — ammesso che ci sia mai entrata davvero — non c’è stato un momento preciso. Solo una dissolvenza.

Poi, un martedì qualunque, cercando vecchi compiti per un collegio docenti su “strategie didattiche inclusive”, ho trovato una cartellina blu. Non era catalogata. Dentro, tra fotocopie di Tacito e appunti sulla Crisi di Sarajevo, c’era un foglio scritto a penna. Non protocollo, non modulo, non verifica. Solo un foglio. Firmato in basso: Luna (questa volta sì, col nome vero).

Scriveva così:

Prof,
mi aveva chiesto, mesi fa, di raccontare una guerra. Diceva che tutte le guerre hanno un inizio, anche quelle che non finiscono. Io non gliel’ho mai portato, quel compito. Ma adesso sì.

La mia guerra è cominciata quando ho capito che nessuno si aspettava niente da me, ma tutti volevano qualcosa. È diversa. È più sottile. È fatta di silenzi e scroll, di messaggi non letti, di madri che parlano senza guardarti e di notti in cui non riesci a spegnere il cervello.

Non ho mai imparato chi ha sparato a chi, e magari non lo farò mai. Ma so cosa significa esplodere, anche senza fuoco. So cos’è la trincea di un cuore che non riesce a uscire da sé. So cos’è la fuga, il tradimento, la resa.

Mi diceva che il problema non è la pistola, ma la polvere da sparo. Io sono piena di quella. Ma almeno ora lo so.

Non sono una studentessa brillante. Ma forse sono viva. E forse questo basta.

Grazie. Per non avermi mai chiesto di essere qualcun altro.

Luna.”**

Rimasi lì, per minuti o ore, non saprei dire. Rilessi la lettera tre, quattro volte. La mano mi tremava come se stessi correggendo un compito a cui avevo messo il voto troppo tardi. Pensai di cercarla. Ma poi capii che non serviva. Non era più mia. Non lo era mai stata. E nemmeno io ero più di me stesso.

Chiusi la cartellina. Scrissi sopra:
“Lezione 81 – La guerra secondo Luna. Da non dimenticare.”


[ SiteLink : Volevo fare l’astronauta ]

Una replica a “Aurelienne – Luna a Sarajevo”

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