Tratto dal libro Racconti dell’Irpinia di Giuseppe Tecce, Graus Edizioni.
Sotto l’ombra dei castagni, si incontrarono. Lei, donna, sorriso coinvolgente, occhi verdi e capelli scuri, piantava un albero. Lo faceva per ricordare un amore finito, un sogno volato in un alito di vento gelido di un giorno di fine aprile. Il clima, ancora inclemente di montagna, non lasciava scampo alle rondini che già avevano attraversato il mediterraneo per prepararsi, a nord, alla stagione degli amori e dei cuccioli. Nel punto esatto in cui un raggio di sole, attraversando le chiome fitte degli alberi, arrivava fino a terra, illuminando il tappeto delle foglie marcescenti, piantò la punta della pala. Smosse lo strato superficiale di terreno, sprigionando un profumo intenso di funghi e menta, e cominciò a scavare con forza.
Lui, uomo, scontroso, barbuto, portava addosso le ferite del tempo, proteggendosi con un’armatura, che, ad occhi inesperti pareva inesistente, ma che ad un esame più attento era radicata nei gangli dell’anima, arpionandosi al di sotto delle carni, dove l’anima si attaccava alle ossa, poco al di sotto degli organi vitali. Lui camminava distrattamente, con lo sguardo perso in quel territorio vagamente somigliante a quello, rigoglioso di vegetazione, visto in un film qualche sera prima.
Lei non fece in tempo a vederlo che l’anima le uscì dalla bocca, sotto forma di uno sbuffo di vapore, andando dritta verso il cuore di lui. Per forza di natura, loro già sapevano di essere gemelli, e di essere l’uno la parte mancante dell’altro. Non ci fu bisogno di parole, né di spiegazioni, ma tutto fu nel turbinio della natura, tra il profumo marcescente delle foglie a terra e il dolce richiamo della primavera, che si manifestava sotto forma di primule e fragole di bosco. Il pulieio rivestiva per intero il fondo del terreno su cui muovevano i loro primi passi. Lei lasciò lì la pala e il ricordo di quel vecchio amore. Camminarono su terreni scoscesi e salirono su, verso vette di piacere ed altipiani di cioccolato e panna. Camminarono ininterrottamente per giorni interi e notti infinite, concedendosi il tempo del riposo e del piacere. Buttarono via le scarpe, continuando a danzare una danza senza musica, fatta al ritmo dei battiti dei loro cuori.
Camminarono a lungo, lei e lui, mano nella mano, come se il mondo non esistesse al di là di quel bosco. Le stelle, nei rari momenti di quiete, sembravano alitare sopra i loro passi, e le ninfe dei boschi li osservavano con curiosità, nascoste tra i tronchi nodosi, sussurrando fra loro che un amore così non si vedeva da molte lune. Eros stesso, capriccioso e inarrestabile, aveva intrecciato i loro destini con fili d’oro e seta.
Ma un giorno, tra i riflessi verdi delle foglie e il canto distante degli uccelli, qualcosa si incrinò. Lei, che fino a quel momento aveva trovato rifugio e gioia nel suo abbraccio, cominciò a guardarsi intorno. Non più con lo stupore di chi cercava bellezza, ma con la curiosità inquieta di chi temeva di perdersi. Le promesse di mondi lontani, raccontate dal vento che sussurrava tra le chiome, iniziarono a chiamarla: miti forse falsi, forse ingannevoli, ma irresistibili.
Lui, sentendo il cambiamento nell’aria, cercò di tenerla vicino, di ancorarla a sé con parole che, però, scivolavano via, come acqua tra le dita. “Non vedi,” le diceva, “che questo è il nostro tempio? Che qui tutto canta di noi?” Ma lei ascoltava il vento più di lui, e i suoi occhi verdi, che un tempo erano stati specchio del loro amore, ora cercavano orizzonti che lui non poteva raggiungere.
Le ninfe, dispiaciute, cercarono di consolarlo, offrendogli fiori di lavanda e miele selvatico, ma nulla poteva colmare il vuoto che lei lasciava quando si allontanava, anche solo con il pensiero. Pan li osservava da lontano, scuotendo la testa, conoscendo bene la fragilità degli amori umani.
Le parole, che prima erano state un balsamo, si trasformarono in lame sottili. Ogni tentativo di spiegarsi si trasformava in un fraintendimento, ogni sguardo sembrava nascondere qualcosa di non detto. L’amore di un tempo,un fiume in piena, ora si arrotolava su se stesso, come un torrente che si perdeva in un gorgo.
Ma l’amore, quello vero, quello delle anime, non si spezza. Nonostante il vento contrario, nonostante le ombre e i dubbi, le loro radici erano intrecciate, giù, in profondità.
Una notte, mentre le stelle cadevano come lacrime dal cielo, Eros, infastidito dalle loro incomprensioni, scoccò una freccia d’argento, per ricordare loro ciò che già sapevano: che erano due metà dello stesso intero.
Si ritrovarono sotto lo stesso castagno dove tutto era cominciato. Lei, con le mani ancora sporche della terra di allora, e lui, con gli occhi pieni di tempeste e di promesse. Non servirono parole. Camminarono ancora insieme, questa volta senza paure, perché avevano imparato che il loro amore era un dono raro, qualcosa che neanche gli dèi avrebbero osato infrangere.
Il bosco, illuminato dalla prima luce dell’alba, si inchinò davanti a loro. Le ninfe cantarono un inno antico, e Pan sorrise tra le ombre, sapendo che, questa volta, l’amore aveva vinto.
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