Io sono ancora qui è un film di Walter Salles che nel 2024 ha vinto l’Oscar per il miglior film internazionale. Racconta la storia vera di Rubens Paiva, un ex deputato brasiliano che fu sequestrato dalla polizia del regime militare allora vigente nel dicembre 1970. In quegli anni il Brasile era infatti dominato da una durissima dittatura militare, anticipatrice delle dittature altrettanto spietate che si susseguirono in molti altri paesi latinoamericani, in particolare in Argentina e in Cile. Sequestri di persona, tortura, uccisioni, persone scomparse per sempre, di cui nemmeno il cadavere è mai stato ritrovato: è, tra i tanti, il caso di Paiva. L’uomo, che all’avvento del regime era dovuto andare in esilio, essendo un rappresentante del partito laburista, al suo ritorno in patria aveva abbandonato la vita politica ma segretamente aiutava gli oppositori del regime. Viveva a Rio, in una bella casa vicino alla spiaggia di Copacabana, aveva una bella moglie e cinque figli: la prima parte del film si sofferma sui momenti di felicità di questa famiglia, le mattinate in spiaggia, il cagnolino adottato dal bimbo più piccolo, le riunioni con gli amici. Poi un mattino, prima di Natale, vengono degli uomini in borghese e portano via Rubens Paiva; il giorno dopo portano via anche la moglie e una delle figlie. Le due donne saranno però rilasciate e la moglie di Rubens, Eunice, dedicherà la sua vita a cercare di sapere cosa sia successo al marito.
In quegli anni lì, i primi anni Settanta, sebbene giovanissima, ero molto informata sul Brasile e su quanto accadeva, perché avevo là degli amici missionari che, quando a volte tornavano in Italia, raccontavano; inoltre a quei tempi leggevo molto certe pubblicazioni, riviste missionarie e gli allora famosi “Quaderni Asal” (Associazione Studi America Latina), che non so più se li ho conservati o se sconsideratamente li ho buttati via; sapevo dei sequestri, delle torture, del pau de arara, il trespolo del pappagallo, al quale i prigionieri venivano appesi, legati per i polsi e per le caviglie, e torturati con un cavo elettrico attaccato ai testicoli. Sapevo che ci si preparava a spianare parte della foresta amazzonica per realizzare una grande arteria stradale, e sapevo degli Yanomamo, una tra le poche popolazioni indigene che viveva ancora in modo tradizionale all’interno della foresta.
Il film è lungo ma appassionante, con un netto contrasto tra la prima parte, che rappresenta la bella famiglia Paiva all’apice della sua gioia di vivere, e una seconda parte attraversata dall’angoscia, dove sono descritte le condizioni in cui Eunice viene tenuta per giorni in cella, viene interrogata duramente, finalmente viene rilasciata e può tornare dai suoi figli ma senza mai più rivedere suo marito. Il resto del film è dedicato alla lotta di questa donna dura, determinata, che consiste sia nel mantenere in piedi la sua famiglia e proteggere i suoi figli, sia nel continuare con ostinazione a cercare di conoscere la verità sulla sorte del marito. Solo dopo venticinque anni, ormai morta e sepolta la dittatura militare, riceverà un documento prezioso, il certificato di morte di Rubens, che paradossalmente accoglierà con gioia ed esibirà con orgoglio davanti alla stampa, perché questo certificato è la prova che Rubens è stato rapito e ucciso. Il corpo, però, non verrà mai ritrovato. Il personaggio di Eunice è magnificamente interpretato dall’attrice Fernanda Torres.
Il film è tratto dal libro autobiografico scritto da Marcelo Paiva, figlio di Rubens, Sono ancora qui, pubblicato in Italia nel 2015 da La nuova frontiera.





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