Di Yuleisy Cruz Lezcano

Quando penso alla mia infanzia a Santa Clara, Cuba, è impossibile non ricordare il calore di quelle sere di domenica davanti al televisore russo in bianco e nero, il solo che avevamo in casa. Erano le sette di sera, l’ora sacra in cui iniziava Palmas y cañas, quel programma televisivo che più di ogni altra cosa, incarnava l’anima vera della nostra Cuba contadina. Seduta sulle ginocchia di mio padre o davanti a lui, nella sedia a dondolo, aspettavo con ansia quel momento magico. Le risate che scaturivano dalle battute argute, dai rimbecchi in rima tra Justo Vega e Adolfo Alfonso, erano musica per le mie orecchie. Cercavamo di imitarli, mio padre, mio fratello ed io, provando a costruire rime improvvisate con la stessa ironia e grazia. Era un rito che ci univa, un gioco di parole che profumava di casa, di radici profonde. Non tutti avevano la televisione; per questo lasciavamo le persiane spalancate, e la luce del piccolo schermo si spargeva nella strada, attirando gli sguardi di vicini e bambini che entravano senza invito. La nostra casa si riempiva di voci, di sorrisi, di occhi curiosi che si posavano sullo schermo, condividendo quel momento semplice ma potentissimo. Palmas y cañas non era solo un programma: era la voce di un’intera cultura che si faceva spettacolo, festa, resistenza.

Le decime, quelle strofe di dieci versi scandite con ritmo e precisione, erano l’essenza del “guateque”. Non erano solo poesie, ma veri duelli poetici, ricchi di ironia, di dolore e di memoria. La controversia tra Justo e Adolfo durò più di vent’anni e rappresentava la quintessenza della nostra tradizione orale. Quelle battute, quei versi, sapevano far ridere ma anche far riflettere sul mondo duro che circondava i campesinos. Mio padre spesso sorrideva scuotendo la testa, e io, bambina, sentivo dentro quel ritmo, quell’energia nuova, quella voce che veniva dal popolo e che a quel popolo doveva tornare. La scena si animava poi di balli che sembravano prendere vita dalle immagini in bianco e nero. Vedevo le donne vestite di bianco, con abiti lunghi e leggeri, quasi una nuvola che danzava, un foulard colorato stretto in vita, un dettaglio di colore che rischiarava il candore del tessuto. Gli uomini con il sombrero calato in testa, camicie di lino e pantaloni chiari, muovevano i piedi con passo deciso nel ritmo sincopato del “zapateo”, del “papalote”, del “gavilán”. Quei balli raccontavano la terra, la fatica, la gioia semplice della vita campesina, e io guardavo sognando di poterli un giorno danzare. Palmas y cañas era molto più di uno spettacolo televisivo: era un presidio culturale. Il programma, nato nel 1962 per promuovere le espressioni autentiche del mondo rurale cubano, aveva saputo mantenere viva la nostra cubania anche nei tempi più difficili. Era la casa del punto “guajiro” (contadino), delle controversie poetiche, della musica “ranchera”, delle “tonadas”, della “guaracha” e del “son”. Era il luogo dove si celebrava la bellezza e la forza della nostra gente, la sua saggezza, la sua ironia, la sua dignità.

Da tempo vivo in Italia, lontana dalla mia terra, ma porto con me il ricordo di quelle domeniche, di quella stanza piena di bambini, delle persiane aperte e della voce potente che dava il via al “guateque”: «¡Ramón, el guateeeeeque!». Ogni volta che scrivo, sento dentro l’eco di quelle parole, di quei versi improvvisati. La diaspora è fatta di nostalgia, di dolore, ma anche di forza. È portare con sé una cultura fatta di suoni, di storie e di passioni che non si spengono, ma diventano più vive nel ricordo. Perché Palmas y cañas, con la sua poesia popolare e i suoi balli, con la sua ironia e il suo amore per la terra, ha seminato in me un seme che continua a germogliare, ogni volta che scelgo una parola, ogni volta che cerco di restituire, attraverso la scrittura, quella bellezza e quella verità che ho imparato a casa, seduta sul davanzale della porta a Santa Clara, guardando le strade strette e ascoltando la voce di un popolo che non smetteva mai di cantare.


[ Immagine in evidenza : Máisel Lòpez ]

Una replica a “Rime di terra e nostalgia”

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