Negli ultimi anni si è assistito a una crescita incontrollata dei concorsi letterari in Italia. Ovunque, sui social, nei gruppi di scrittura o tra le pagine dei siti specializzati, spuntano bandi come funghi: premi per racconti brevi, sillogi poetiche, romanzi inediti, favole per bambini, aforismi… un’offerta apparentemente infinita e variegata, che sembra voler dare voce a chiunque scriva. Eppure, dietro la patina patinata della cultura partecipata, si cela un meccanismo ben più subdolo: un sistema che spesso sfrutta le passioni, i sogni e l’ingenuità di migliaia di autori, trasformando l’arte in business e la scrittura in moneta di scambio. Perché oggi, in Italia, partecipare a un concorso letterario quasi sempre significa pagare. Quote d’iscrizione che vanno dai 20 ai 100 euro, spese di segreteria spacciate per costi organizzativi, giurie “prestigiose” ma quasi sempre gratuite e non retribuite, premi in denaro rari come l’acqua nel deserto, e, come ciliegina sulla torta, il premio più ambito: l’inserimento in una fantomatica “antologia” che sarà poi venduta agli stessi autori a peso d’oro.
Tutto legale, per carità. Ma altrettanto discutibile dal punto di vista etico. Si tratta di un’industria travestita da cultura, che si alimenta del bisogno di essere visti, riconosciuti, legittimati. Ed è proprio su questa fame di visibilità che si fonda il sistema. Al partecipante viene data l’illusione di essere parte di un circuito esclusivo, selezionato, “scelto tra centinaia di opere”, e poi invitato — non obbligato, certo — ad acquistare almeno una copia dell’antologia per “sostenere l’iniziativa”. Un ricatto emotivo mascherato da opportunità, una trappola ben costruita. In altri casi, il concorso è solo un pretesto per vendere servizi editoriali: ti fanno credere che il tuo testo sia eccezionale, poi ti propongono un contratto di pubblicazione (rigorosamente a pagamento), corredato da pacchetti scontati per l’acquisto di copie, editing e visibilità online. Lusinghe di ogni tipo: il tuo testo è “potentissimo”, “di una forza lirica unica”, “tra i più belli ricevuti”, e solo la tua partecipazione all’antologia potrà garantire la possibilità di essere selezionato per il superpremio finale. Ma niente paura, ti rassicurano: “La tua adesione non influirà in alcun modo sulla valutazione finale”. Intanto, a giochi ancora aperti, ti arriva già la mail con l’offerta commerciale, come in un’asta truccata in cui vinci solo se paghi.
In Spagna, tanto per fare un esempio, la maggior parte dei concorsi letterari è gratuita. I premi, spesso promossi da enti pubblici o da fondazioni culturali serie, prevedono compensi in denaro, pubblicazioni vere, con tirature concrete e una distribuzione che non si esaurisce in un acquisto coattivo da parte degli stessi autori. Perché da quelle parti, come in molti Paesi europei, la cultura è ancora considerata un bene comune e non un’opportunità commerciale. In Italia invece si moltiplicano concorsi dai nomi roboanti, intitolati a poeti famosi di cui nessuno degli organizzatori conosce davvero l’opera, dove si premia chi è in grado di presenziare, acquistare copie, stringere mani, presenziare a cene di gala. Se non sei presente alla cerimonia — magari per motivi economici o logistici — vieni declassato, anche se hai scritto il testo migliore. Un concorso letterario serio, al contrario, valuta le opere, non le presenze. E non distribuisce attestati di partecipazione come fossero fazzoletti al bar della sagra. Gli attestati di “non vittoria” non hanno alcun valore: non siamo a un master universitario, dove una certificazione può rappresentare una competenza acquisita. Qui si parla di letteratura, e la dignità dell’autore non dovrebbe essere subordinata all’acquisto di una pergamena.
Eppure il mercato è fiorente. Centinaia, migliaia di scrittori partecipano, pagano, comprano. Una miriade di piccole case editrici — molte delle quali improvvisate — hanno scoperto che organizzare un concorso letterario è il modo più rapido e redditizio per vendere libri che nessuno leggerebbe. Libri mal impaginati, con copertine amatoriali, pieni di refusi e con contenuti spesso imbarazzanti. Ma venduti agli autori stessi, che li sfoggiano orgogliosi sui social, appendono diplomi alle pareti e aggiungono righe al proprio curriculum. Una gigantesca fiera delle vanità, alimentata dall’assenza di veri spazi di formazione e confronto, dalla carenza di lettori critici e da un sistema educativo che sempre meno promuove il pensiero autonomo. Non sorprende, allora, che molti autori inesperti, mossi più dal desiderio di riconoscimento che dalla consapevolezza artistica, finiscano per cadere nella trappola. Così come non sorprende che gli organizzatori, ben consapevoli di ciò, cavalchino l’onda con promesse di visibilità, pubblicazioni da collezione, cerimonie in location sontuose — o peggio, in chiese, saloni comunali, agriturismi — spacciando per cultura quella che è, in fondo, una catena di montaggio dell’illusione.
E come se non bastasse, a questo panorama già desolante si aggiungono i festival culturali, i salotti autoreferenziali dove gli stessi nomi si ripetono come un mantra: tizio presenta caio, caio presenta sempronio, applausi, reading, selfie, spritz. Iniziative spesso finanziate da fondi pubblici, che anziché promuovere nuove voci e reale confronto culturale, diventano passerelle per amici, colleghi, sodali. La cultura, quella vera, raramente vi trova spazio. Mentre a farne le spese sono gli autori autentici, quelli che scrivono per esigenza espressiva e non per narcisismo, che spesso restano ai margini perché poco inclini ai compromessi o incapaci di vendersi al miglior offerente.
Eppure, altrove, esperienze diverse dimostrano che un’altra strada è possibile. Quando la poesia entra in una scuola di periferia, quando uno scrittore dialoga con detenuti, quando la cultura si fa carne e voce, e non mera esibizione, allora sì che si crea qualcosa di significativo. La vera cultura non si misura in premi, medaglie, copie vendute o diplomi appesi. Ma in ciò che riesce a lasciare dentro chi ascolta, in ciò che trasforma davvero, anche solo per un momento, la coscienza di chi legge o partecipa.
E allora forse la soluzione non è smettere di partecipare, ma scegliere con attenzione. Rifiutare chi ci vuole trasformare in clienti, disertare le trappole mascherate da opportunità, dire no a chi chiede denaro in cambio di considerazione. Un autore non deve mai pagare per essere letto, tanto meno per essere premiato. Chi scrive ha già dato: tempo, dedizione, emozione. Che almeno gli sia concesso il rispetto.
Per questo, ogni volta che arriva l’email con gli elogi smisurati — “la tua poesia è un capolavoro, degna di D’Annunzio sotto Viagra” — accompagnata dall’invito a prenotare otto, sedici o trentadue copie dell’antologia “prestigiosa”, la risposta dovrebbe essere semplice e chiara: no, grazie. Non perché manchi il desiderio di essere letti, ma perché c’è bisogno urgente di restituire dignità alla scrittura. E perché, in fondo, il vero premio per chi scrive è quello sguardo commosso di un bambino, il silenzio attento di un detenuto, il gesto spontaneo di chi raccoglie due spiccioli per aiutare chi soffre. Quelli sì, sono riconoscimenti che valgono. Tutto il resto è solo rumore.
Non mancano gli esempi tangibili di questo meccanismo tanto diffuso quanto collaudato. Prendiamo ad esempio uno dei concorsi più pubblicizzati negli ultimi anni, che promette ai partecipanti “riconoscimenti internazionali” e una “pubblicazione in una prestigiosa antologia cartacea a tiratura limitata”. Il bando, scritto con toni altisonanti, parla di qualità, selezione rigorosa, attenzione al talento. Poi, però, non appena si invia il proprio testo — spesso prima ancora che scada il termine di partecipazione — arriva l’immancabile mail: “Gentile autore, siamo lieti di comunicarle che la sua opera è risultata tra le più emozionanti pervenute e sarà inserita nella nostra raccolta. Per confermare la sua presenza è richiesto l’acquisto minimo di otto copie al prezzo speciale di 18,90 euro l’una”. Nessuna giuria, nessuna classifica, nessuna reale selezione. Solo una vendita mascherata da riconoscimento, in cui l’unica vera abilità richiesta è quella di possedere una carta di credito funzionante.
Un altro esempio eclatante riguarda un concorso di poesia organizzato da una nota casa editrice a pagamento, che ogni anno pubblica decine di antologie dal titolo intercambiabile: “Versi d’Amore”, “Luce e Tenebre”, “Emozioni di Vita”. Centinaia di autori ricevono una lettera identica: un testo copiato e incollato con il solo nome cambiato. Il tono è sempre lo stesso, infarcito di superlativi e formule standardizzate: “Siamo felici di comunicarle che la sua poesia sarà pubblicata accanto ai più grandi autori contemporanei”. In realtà, basta una rapida ricerca online per scoprire che questi “più grandi autori” non esistono, o sono i soliti noti, cioè altri partecipanti ignari, che hanno ricevuto la stessa comunicazione e stanno sborsando cifre considerevoli per vedere il proprio nome stampato su carta. In certi casi si scopre anche che i testi nemmeno vengono letti: alcuni hanno fatto l’esperimento di inviare poesie senza senso, costruite con generatori automatici, e sono comunque stati selezionati per la pubblicazione.
Eclatante anche il caso di un concorso indetto da un’associazione culturale in provincia di Pavia, che nel bando prometteva premi in denaro e “importanti opportunità editoriali”. Alla fine, solo un vincitore su cinque ricevette l’assegno promesso. Gli altri si ritrovarono a partecipare a una premiazione improvvisata in un centro sociale, senza microfoni, senza pubblico e con una giuria composta dagli stessi membri dell’associazione promotrice, di cui almeno due avevano già pubblicato insieme un libro con il presunto vincitore. In molti, indignati, hanno poi scritto ai giornali locali o raccontato l’episodio sui social, ma la macchina era già ripartita con una nuova edizione e un nuovo bando-fotocopia.
Non mancano poi concorsi che non prevedono nemmeno una cerimonia pubblica: una volta conclusa la raccolta delle quote di iscrizione, il sito viene aggiornato con una lista di nomi, i diplomi in PDF sono inviati via mail e l’unico premio reale consiste nell’opportunità di acquistare a prezzo “scontato” un volume che racchiude tutte le opere premiate. L’anno scorso un noto autore, per provare la fondatezza delle accuse mosse da molti contro queste pratiche, ha inviato un racconto completamente plagiato da un romanzo ottocentesco fuori copyright. È stato selezionato. E ha ricevuto la consueta mail di congratulazioni, con l’invito ad acquistare almeno 12 copie per accedere al “premio speciale della critica”. Altro che selezione di qualità: nessuno si era nemmeno accorto che il testo era stato scritto da Guy de Maupassant.
Il problema però non si ferma ai concorsi. Anche molti editori a pagamento utilizzano le stesse dinamiche. Un autore alle prime armi viene contattato dopo aver inviato un manoscritto, gli viene detto che il suo libro “ha entusiasmato il comitato di lettura” e che “merita assolutamente di essere pubblicato”. La proposta è semplice: stampare mille copie a spese dell’autore, con la promessa di presentazioni, recensioni, visibilità. In realtà, le presentazioni sono eventi auto-organizzati dall’autore stesso, spesso in biblioteca o presso qualche libreria indipendente di provincia, con dieci persone presenti (sette delle quali sono parenti). Le recensioni sono poco più che articoli copiaincolla su blog semi-sconosciuti, e la distribuzione si limita al sito della casa editrice e a qualche copia su Amazon, persa tra milioni di titoli autoprodotti. Alla fine, l’autore si ritrova con scatoloni pieni di libri invenduti, un pugno di visualizzazioni e un conto corrente più leggero di diverse centinaia di euro.
Lo stesso schema si replica anche nei festival letterari, in cui molto spesso l’obiettivo non è promuovere la letteratura, ma generare indotto economico. I festival pullulano di eventi-fotocopia: tavole rotonde in cui gli stessi autori si presentano a vicenda, reading poetici con microfoni gracchianti, firmacopie che somigliano più a mercatini di beneficenza che a reali momenti di scambio tra autore e lettore. Il pubblico, quando c’è, è spesso composto da amici degli autori o passanti casuali attratti dalla promessa di un buffet gratuito o da una birra artigianale. L’evento “culturale” è diventato un format, una macchina da eventi che si autoalimenta, dove il contenuto spesso è solo un pretesto. Più visibilità hai, più eventi ti vengono offerti. Più eventi fai, più ti accrediti presso il circuito. Un cane che si morde la coda, dove la qualità conta meno della quantità.
Eppure, qualcosa si muove. Esistono realtà che resistono, iniziative che non chiedono denaro, che puntano davvero sulla qualità e sul confronto. Esistono scuole che ospitano poeti e scrittori per seminari gratuiti, carceri che organizzano laboratori di scrittura dove le parole diventano cura, quartieri difficili in cui le biblioteche promuovono rassegne letterarie senza biglietto d’ingresso. Iniziative umili, spesso ignorate dai grandi media, ma che lasciano un segno. Come quel progetto realizzato in una scuola romana di periferia, dove i bambini delle elementari, dopo aver ascoltato poesie sul tema della pace, hanno raccolto con le loro paghette più di duecento euro per aiutare coetanei vittime della guerra. Un gesto piccolo ma carico di significato, che vale molto di più di qualsiasi premio letterario farlocco. O come l’incontro avvenuto nel carcere di Pesaro, dove alcuni detenuti hanno scritto: “Questa non è una giornata normale, ma un esempio di quello che il carcere potrebbe essere: umano, condiviso, significativo”. Ecco: la vera cultura è questa. Non quella che riempie pagine patinate o sale vuote, ma quella che crea ponti, che emoziona, che cambia.
Dunque, a chi oggi scrive e si chiede se valga la pena partecipare a certi concorsi, la risposta non può che essere duplice: sì, se il concorso è serio, trasparente, gratuito o onesto nel suo rapporto qualità/prezzo. No, se serve solo ad alimentare un mercato che lucra sui sogni. Bisogna imparare a distinguere, a scegliere, a dire no. Perché la cultura vera non ha bisogno di lusinghe, né di premi fasulli. La cultura vera ha bisogno di rispetto. E quello, per fortuna, non è in vendita.





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