Incipit
Il corpo senza vita di Efisia Caddozzu venne trovato la mattina del 25 luglio 1994 da due ragazzini che percorrevano in bicicletta la via Bonellina, alla periferia di Pistoia.
«Vieni un po’ a vedere», fece uno dei due, che aveva notato qualcosa di strano tra il ciglio della strada e il fossato.
Buttarono le bici in terra, sull’erba. Scesero nel fossato, si avvicinarono prudentemente al corpo.
«Cazzo, una puttana.»
«Mi sa che è morta.»
«Morta, che ne sai. Magari si è solo sentita male. Signora?»
«Sì, chiamala pure. Io dico che è crepata.»
«Hai visto com’è vestita…»
«Di’, ci andresti a letto tu con una come questa? Cioè, se fosse viva, naturalmente. Te la faresti?»
«Sei impazzito? Che schifo…»
«Guarda le cosce. Che grassa!»
«Scommetto che non ha neanche le mutande.»
«Dai, guardiamo.»
«Sei matto? Non si può toccare un cadavere. Inquinamento delle prove. E se poi ci aveva qualche malattia?»
«Ce l’aveva di sicuro, sta’ tranquillo. Hanno tutte l’aidiesse.»
«Comunque anche senza toccarla si vede lo stesso che non ha le mutande. Si vede l’ombra, la vedi?»
«Che ombra?»
«L’ombra dei peli, idiota. L’ombra dei peli della passera.»
I due ragazzi si chinarono sul corpo, sbirciarono tra le gambe scomposte.
«La vedi?»
«Io non vedo niente.»
«Perché sei un idiota.»
«Sarà meglio avvisare qualcuno.»
Inforcarono le biciclette e pedalarono senza riprender fiato fino a Ramini, dove abitava il più grande dei due, quello che fin dal primo momento aveva preso in mano la situazione.
«Mamma», urlò con tutto il fiato svoltando per entrare nella stradina stretta che immetteva nell’aia. Sua madre si affacciò alla porta di casa, grossa e sudata, con i capelli biondi raccolti sulla testa da una pinza di plastica e un camicione a fiori, l’unico tipo di vestito che poteva indossare, data la stazza. Aveva le mani infarinate e il viso arrossato dalla fatica. Stava impastando la sfoglia: il 25 luglio a Pistoia è festa, è San Jacopo, il patrono della città, e per San Jacopo a Pistoia si usa mangiare i maccheroni al sugo d’anatra, e lei stava appunto impastando la farina con l’uovo per fare i maccheroni.
«Che c’è», fece la donna scostandosi dalla fronte una ciocca sudata e cercando di infilarla tra i denti della pinza.
«Abbiamo trovato un cadavere», rispose il figlio, pieno d’orgoglio.
«Una prostituta», aggiunse l’altro.
Nel giro di mezz’ora Ramini, Casenuove e Masiano furono informate della notizia; sul luogo del ritrovamento arrivarono i carabinieri e un giornalista della Nazione. Quello del Tirreno si rivelò irreperibile. Sul ciglio della Bonellina si formò un capannello di curiosi, ognuno disse la sua, ma non si trovò nei dintorni nessuno che fosse in grado di identificare la donna, che non aveva addosso documenti.
*
Il 20 marzo 1950, a Cagliari, tirava vento. Tira sempre vento, a Cagliari: questo è il motivo per cui i cagliaritani parlano sempre a voce molto alta, perché se la porta via il vento, la voce, e allora bisogna urlare se ci si vuol fare sentire. Maria Rosaria Piras, di soli ventun anni, penava in preda alle doglie: non urlava, lei, non ne aveva più la forza. I dolori, cominciati più di ventiquattro ore prima, erano spaventosi, non assomigliavano a niente che Maria Rosaria avesse mai provato o a cui fosse minimamente preparata. Camminava avanti e indietro per la camera, sorretta dalla madre che le borbottava irritanti parole di conforto; si metteva a sedere tenendosi il ventre enorme con le mani sudate; si lasciava passare sul viso un asciugamano bagnato, ruvido come carta vetrata, dalle mani dell’ostetrica, signorina Onoria, che aveva aiutato a partorire innumerevoli donne della famiglia e del vicinato nel corso di interi decenni. Ora signorina Onoria era anziana e le sue mani erano diventate nodose a causa dell’artrite.
Non voleva farlo capire, signorina Onoria, ma era preoccupata. Il travaglio durava da troppe ore, Maria Rosaria era esausta, la dilatazione era ancora incompleta, il bambino non nasceva. Più passavano le ore, più il rischio aumentava, tanto che si dovette far venire il dottor Foddis, che dopo aver riflettuto a lungo fumando come un turco si decise infine a usare il forcipe per tirare fuori la creatura, mentre l’ostetrica, per facilitare il processo di espulsione, sedeva con tutto il suo peso sulla pancia della disgraziata partoriente. Quando alla fine il bambino venne fuori, era violaceo e inerte; la madre rantolava sfinita; tutti si adoperarono a soccorrerla con nuove pezzuole umide e parole di conforto, mentre l’esserino appena nato fu buttato su una poltrona, avvolto in uno straccio, come una cosa ormai inutile. Solo una mezzoretta più tardi, quando fu ormai chiaro che il peggio era passato e che la puerpera se la sarebbe cavata con qualche giorno di riposo, la signorina Onoria raccolse quel fagottino, aprì i lembi del telo e si accorse di due cose: la prima, che il bambino era vivo e non pareva intenzionato a morire; la seconda, che non era un bambino ma una femminedda. Fu così che Efisia Caddozzu venne al mondo.
Mischinedda, pensò la levatrice mentre la presentava ai parenti riuniti, eccetto che alla madre, che si era addormentata, povero angelo, sfinita com’era: al padre, Gavino Caddozzu, un giovane maestro elementare afflitto da un cognome che ne faceva il bersaglio di scherzi feroci da parte dei suoi alunni di quarta; alla nonna, una donna bassa e grassa, con una gran crocchia di capelli brizzolati; al nonno Luigi, notaio, un mingherlino con gli occhialetti cerchiati di metallo; a sa zeracca, una ragazza con la pelle olivastra e i capelli, raccolti in una treccia, che le partivano a pochi centimetri dalle folte sopracciglia; al dottor Foddis, il più meravigliato di tutti di fronte all’inaspettato miracolo della creatura che non ne voleva sapere di crepare. La testa di sa pippia era mostruosamente lunga, il suo colorito grigiastro, le labbra di un viola quasi nero e sulla fronte si scorgevano i contorni di una deturpante voglia rosso fragola. Assumendo un tono professionale, il dottor Foddis, che fumava avidamente una sigaretta proprio in faccia a issa, spiegò che la testina avrebbe presto acquistato forma e proporzioni più ragionevoli, che il colorito si sarebbe fatto più roseo, che la voglia sulla fronte probabilmente non era una voglia ma un angioma che presto si sarebbe riassorbito e che, a Dio piacendo, la bambina avrebbe superato il trauma del parto e sarebbe sopravvissuta, diventando in poco tempo una bella e sana picciocchedda.
Èllusu, pensò la nonna, una parola che nel suo vocabolario alquanto limitato stava a significare molte cose diverse a seconda delle circostanze.





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