Lei è il tuo posto, ma tu non sei il suo.

La frase ti arriva addosso una sera, come una macchina lanciata a fari spenti nel buio di una statale. Ti colpisce al petto mentre sei seduto su una poltrona troppo vecchia in un appartamento in affitto che non ti somiglia per niente. C’è della musica bassa in sottofondo, una canzone malinconica che forse è solo un loop nella tua testa. Whisky nel bicchiere, sigaretta accesa, finestra socchiusa. È notte fonda e fuori piove. Naturalmente.

Hai fatto tutto quello che dovevi per dimenticarla: ti sei trasferito, hai cambiato lingua, hai vissuto in città dove il pane sapeva di plastica e il tempo era grigio come le pareti degli ospedali. Hai raccolto nuove storie, donne senza volto, mattine senza odori. Hai tentato di essere altro. Ma lei è rimasta lì, incastrata nei bordi. Come una scheggia che non esce.

Hai costruito un’intera mitologia sul suo ritorno. Ti immaginavi cavaliere moderno con gli occhi stanchi e le mani sudate, pronto a riportarla via da una vita sbagliata. Invece sei solo fuggito. Hai messo la distanza di tre nazioni tra te e la verità: che lei aveva già scelto. Non te. Qualcos’altro. Qualcun altro.

Una sera, tempo fa – non così lontano da dimenticare, non così vicino da tornarci – eri con lei su un gradino. Bevevate. Lei parlava come se il mondo non potesse toccarla. Aveva quella voce da film anni ’70, ruvida e seducente, e parlava con la stessa leggerezza con cui altri si lanciano dai ponti. Tu avresti potuto dirle “Ti prendo e ti porto via”. Lei lo avrebbe seguito. Era ancora sufficientemente scema per starti a sentire, come dici tu adesso. Ma non hai detto niente. Ti sei chiuso nel tuo recinto. Mediocrità e sesso scadente. Le solite fughe da camera a camera. E mentre tu affondavi nei tuoi silenzi, lei costruiva qualcosa. Una vita forse, o solo una storia diversa.

Lei. Quella che beveva più dei maschi, che rideva sempre troppo forte, che non sapeva camminare con i tacchi ma li indossava lo stesso. Quella che ti ha preso a calci il cuore senza nemmeno saperlo. E tu? Hai lasciato che accadesse. Hai ceduto. Hai creduto che il tempo avrebbe sistemato le cose. Ma il tempo è solo un truffatore vestito bene.

Ora, ogni tanto, sogni. Non tanto lei. Ma un’idea di lei. Un’eco. Ti viene voglia di scriverle. Di dirle: “Non è finita.” Ma lo è. Lo sai. Non c’è più spazio. Ha un altro passato da raccontare, un presente da vivere e un futuro dove tu sei un errore ortografico.

Una notte a Parigi, forse. O Berlino. Ti sei ubriacato da solo. Hai ordinato il suo drink preferito. Lo hai bevuto tutto d’un fiato, aspettando un segno. Una voce, un messaggio, uno strappo nel velo del reale. Niente. Solo un cameriere annoiato e il tuo riflesso nello specchio del locale. Sembravi uno che si è perso. Sembravi te.

Hai provato a scriverle. Hai scritto: “Se fossi tornato prima…”, “Se tu mi avessi aspettato…”, “Perché non mi hai cercato?”
Ma la risposta era lì, evidente, violenta, fredda: non era lei a dover aspettare.

Sei sempre stato tu quello che non ha fatto. Quello che ha lasciato andare. Quello bravo a fingere disinteresse. Hai vestito la paura con sarcasmo. Hai confuso il coraggio con l’orgoglio. E quando, un giorno, con la tua solita leggerezza disperata, le hai detto “Un giorno potrei tornare a prenderti”, lei – con quella ferocia chirurgica che usava solo con te – ti ha risposto:

“Mi lascerai andare perché sai fare solo quello.”

E l’ha detto così, come se parlasse del tempo o del vino andato a male. Ti ha guardato dritto, come chi ha finito tutto. E tu, invece di rispondere, sei rimasto lì. Fermo. Incapace.
Perché sì, sai fare solo quello: lasciar andare.
Le cose buone, le persone vere, le possibilità.

Oggi la vedi, ogni tanto, sui social. Una foto. Un commento. Un profilo che non guardi ma che sai a memoria. È cambiata. Non nei lineamenti. Negli occhi. Ha quella luce che non ti appartiene più. Tu resti un’ombra che osserva da dietro un vetro.
E la domanda che ti ripeti non è “Perché lei non mi ha amato abbastanza?”
Ma:

“Perché io non ho avuto il coraggio?”

Un giorno ti è arrivata una cartolina. Spiaggia deserta, sabbia bianca, il retro scritto a mano: “Qui non c’è niente, eppure sto bene.” Nessun nome. Nessun indizio.
Forse era lei.
Forse no.
Forse è solo l’ennesima bugia che ti racconti per restare legato a qualcosa che non esiste più.

Adesso è tutto silenzio. Tutto chiuso.
Lei è nel suo recinto. Fatto di mattine serene, libri letti fino a tardi, piante sul balcone e risate che non ti coinvolgono più.
E tu sei nel tuo.
Fatto di amanti inutili, film lasciati a metà e parole che nessuno vuole più sentire.

Una sera cammini. In una città senza nome. Attraversi un ponte. Guardi l’acqua. Non pensi al suicidio – quello è troppo teatrale per te.
Pensi al silenzio.
A quanto sia difficile accettare che la persona che credevi tua casa non sia nemmeno il tuo indirizzo.

Allora butti via l’ultima sigaretta. Respiri. Guardi una rosa che cresce tra le crepe dell’asfalto. È lì, viva, testarda. Una cosa piccola che ce l’ha fatta lo stesso.

Non è per lei.
È per te.

“Crescano le rose sul tuo cammino,” dici.
Lo dici piano, senza enfasi.
Come un addio vero.
Di quelli che non chiedono nulla indietro.

E ti allontani.
Senza voltarti.
Nessuna musica. Solo passi.
I tuoi.


[ SiteLink : Volevo fare l’astronauta ]

Una replica a “Aurelienne – Crescano le rose sul tuo cammino”

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