Sudari, di Paola Caridi, è un libriccino davvero piccolo, tascabile nel vero senso della parola: ha una sobria copertina color crema sulla quale spiccano in nero il nome dell’autrice, il titolo e il sottotitolo (Elegia per Gaza) e il nome dell’editore, Feltrinelli.

Paola Caridi parte da un’immagine che tutti abbiamo costantemente sotto gli occhi: quella di corpi avvolti in teli bianchi, legati in cima e in fondo, deposti al suolo o portati a braccia o stretti al cuore da madri, mogli, padri, sorelle di chi dentro quel telo sta. Sono i sudari di Gaza, degli infiniti morti di Gaza, che la tradizione vuole siano avvolti in teli bianchi: di mussola o di cotone, di lino ma anche, sempre più spesso, venendo a mancare gli altri materiali, di plastica. «Sono questi sudari», dice Paola Caridi, «a difendere i morti dall’oblio. I morti ammazzati palestinesi.» E sono stati i fotografi palestinesi «a imporli al nostro sguardo distratto.»

Moltә di quellә fotografә, di quellә cineoperatorә, di quellә giornalistә e di quellә poetә che hanno diffuso, con immagini e con parole quello che accade a Gaza, quello che accade in Cisgiordania, sono poi statә ammazzatә a loro volta (uso per la prima volta il segno schwa perché voglio che salti all’occhio che tra tutte queste persone uccise ci sono anche molte donne).

Il libro poi prosegue descrivendo i riti funebri islamici e spiegando come questi riti siano, a Gaza, gravemente impediti: per la scarsità dei teli, per la mancanza di acqua per lavare i corpi, per la mancanza di terra dove seppellirli, e molto spesso per la mancanza del corpo stesso, smembrato e sparso qua e là dall’esplosione che l’ha ucciso o sepolto sotto macerie o spianato da ruspe e carri armati.

Il sudario, in questi casi, è fatto di cemento.

Nel testo, breve ma molto denso, Caridi coglie numerose analogie: i sudari di Gaza le fanno venire in mente il Cretto di Burri, un immenso sudario di cemento posato sulle macerie di Gibellina; o il telo che avvolge l’angelo che detta il Vangelo a San Matteo nella celebre tela di Caravaggio, o certe carceri dove la gente sta murata viva.

Nell’ultimo capitolo l’autrice ricostruisce la genesi delle iniziative che nella scorsa primavera sono state promosse e si sono diffuse in tutta Italia a partire da un piccolo gruppo di persone (Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Evelina Santangelo e la stessa Caridi) che a loro volta hanno raccolto l’appello di migliaia di persone anonime, non militanti, che si sentivano turbate e si chiedevano cosa fare. Di qui sono nati alcuni eventi in apparenza minimi, ma che hanno avuto un grande impatto: le candele, i sudari, le campane, le foto, il silenzio, il  rumore. «Così il sussurro è divenuto una voce», conclude Paola Caridi: una voce che si è poi fatta sentire nelle grandi manifestazioni di giugno, e che torna a farsi sentire in questi giorni tremendi.

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