Edna O’Brien è una grande scrittrice irlandese, nata nel 1930 e morta poco più di anno fa, a 93 anni. Nel 1999 ha scritto una straordinaria biografia di James Joyce, che è appena uscita per Einaudi nella traduzione di Enrico Terrinoni. Straordinaria perché è scritta col piglio e col linguaggio della grande scrittrice quale, appunto, O’Brien è. Traccia un ritratto del geniale autore di Ulisse e di poche, ma importantissime altre opere con uno sguardo personalissimo che ce ne svela tutta l’umanità e, al tempo stesso, l’eccezionalità del suo genio. Un uomo, Joyce, dalla salute cagionevole, dalla vita tormentata, sempre alle prese con questioni di soldi, dall’invincibile propensione al bere, la cui dedizione alla scrittura, il culto della parola, fu totale e devastante.

Joyce nacque da una famiglia inizialmente benestante, che in seguito a una serie di rovesci di fortuna e al carattere difficile, iracondo del padre, anche lui dedito all’alcol, si ritrovò nel corso degli anni a scendere tutti gli scalini della scala sociale fino a sperimentare la miseria più nera. I Joyce erano una famiglia numerosissima: May, la madre, mise al mondo 17 figli, diversi dei quali morirono in tenera età; sopravvissero in dieci. James, il secondogenito, fu a lungo il prediletto a causa della sua brillante intelligenza e della sua propensione allo studio: volevano farne un prete. Ma James, ribelle nei confronti della famiglia, della religione e della sua stessa terra, l’Irlanda, amata e odiata al tempo stesso, non abbracciò la via del sacerdozio. Per tutta la vita frequentò bordelli e prostitute, ma si unì di un legame duraturo sebbene travagliato a una donna, Nora, dalla quale ebbe due figli, Giorgio e Lucia. Visse qua e là, a Trieste e a Pola, a Roma, a Zurigo, a Parigi, con periodici rientri a Dublino, e fu sempre attanagliato dalla mancanza di denaro. Anche quando lavorava (ha insegnato inglese, avendo come allievo tra gli altri Italo Svevo, ha scritto per diversi giornali, è stato impiegato di banca) sperperava in pochi giorni lo stipendio e si ritrovava in miseria fino al prossimo giorno di paga. In un certo periodo della sua vita, a Roma, nonostante lavorasse in banca e quindi godesse di uno stipendio fisso, che sperperava nel giro di pochi giorni, era così al verde da essere costretto ad affittare una stanza solo per una notte: a mezzogiorno Nora e il piccolo Giorgio uscivano, andavano ai giardini o in qualche bar, in attesa che James arrivasse la sera con i soldi di qualche lezione che aveva dato nel pomeriggio, dopo il lavoro in banca: con quelle poche lire affittava una camera per un’altra notte e la famigliola andava avanti così, nell’incertezza e nel vagabondaggio.

Niente, però, fu in grado di distoglierlo da quello che era lo scopo della sua vita, la scrittura. Né l’ubriachezza, né la quasi totale cecità, né le liti furiose con Nora, con il padre o col fratello Stanislaus, né le delusioni provate sul piano editoriale. A partire da Gente di Dublino, le sue opere incontravano enormi difficoltà a trovare un editore, per i contenuti troppo anticonformisti, blasfemi, talvolta osceni, e per il linguaggio difficile, quasi indecifrabile.

Per quanto mi riguarda, ho letto Gente di Dublino molti anni fa, dopo aver incontrato alcuni dei racconti che ne fanno parte nelle antologie scolastiche e dopo aver visto il bellissimo film The Dead, tratto dall’omonimo racconto che conclude la raccolta: a quei tempi, gli anni Settanta/Ottanta del Novecento, lo scandalo che aveva accompagnato l’uscita del libro, che impiegò quasi dieci anni, dal 1905 al 1914 a giungere alla pubblicazione, tra tagli imposti e rifiutati, censura, accuse verso l’autore di essere antiirlandese e anticristiano, di rappresentare i dublinesi in modo denigratorio, era stato superato dal tempo e dal successo poi raggiunto dal grande scrittore. Credo di aver letto, e di avere anche da qualche parte della mia libreria, il Dedalus, Ritratto dell’artista da giovane, e mi sono cimentata con Ulisse in diversi momenti della mia vita. Più volte l’ho affrontato e ho quasi imparato a memoria le prime pagine, però mi sono arenata spesso fino a quando non ho deciso di affrontarlo di petto: durante l’estate, quando il mio lavoro di insegnante mi lasciava il tempo per letture impegnative che altrimenti mi sarebbe stato difficile affrontare, dedicavo ogni pomeriggio un paio d’ore alla lettura di uno dei 18 capitoli in cui il libro è diviso. Con questo metodo sono riuscita ad arrivare in fondo all’opera, mentre non ho mai avuto il coraggio di affrontare Finnegans Wake.

Ulisse è un libro veramente arduo, e non ho nessuna intenzione qui di esaminarne la struttura, il simbolismo, la straordinaria varietà dei linguaggi. Tuttavia si tratta di un’opera eccezionale, della quale senti l’impatto anche da “lettrice ingenua” quale io sono: senti l’imponenza della struttura di questa Odissea di un solo giorno, senti la presenza e il fascino di Dublino, impari a conoscere Leopold, Stephen, Molly, ti diverti per le capriole linguistiche in cui si cimenta l’autore e per le scene comiche di cui l’opera è ricca, rimani incantata per certi passaggi lirici, ammirata per la complessità dell’architettura…

E come disse un editore che alla fine non volle pubblicare un mio romanzo perché non apprezzava il mio linguaggio, solo moderatamente trasgressivo, «Io ho letto anche Joyce», frase colma di disprezzo verso il genio irlandese e, di sguincio, anche verso di me, che a lui, non si sa bene con quale criterio, mi accostava.

2 risposte a “James Joyce, di Edna O’Brien (Einaudi, 2025) Recensione di Marisa Salabelle”

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