C’è una fotografia che in questi giorni mi ritorna continuamente alla mente. L’ho vista sulle pagine di un quotidiano locale, quasi per caso. Porta con sé la patina del tempo: credo risalga al 1918. Siamo sull’Altopiano di Asiago, a pochi chilometri da dove vivo io oggi, nei pressi di Cima Ekar. Immagino sia del periodo finale della guerra 15-18, quando il fronte si preparava alle battaglie decisive e il respiro dell’attesa si mescolava alla neve che cadeva.
Nella foto vedo due mondi contrapposti. Da una parte, i camion militari, i soldati che si muovono con passo incerto, figure inghiottite dal gelo e dalla stanchezza. Dall’altra, una donna anziana. Avanza con il suo asino carico, piegata ma ostinata, dentro una tormenta che pare volerla cancellare. Non guarda attorno, non sembra percepire il pericolo che incombe. È come se vivesse in un tempo diverso, estranea alla guerra che divora tutto.
In lei leggo un’attesa muta, ma anche la forza silenziosa di chi non si arrende. La guerra consuma, logora, scava dentro, fino a far dimenticare ciò che conta: la vita semplice, la luce, il gesto quotidiano che resiste. La donna, invece, sembra portare altro. Come la montagna che custodisce e annuncia la rinascita, lei diventa segno di una possibilità nuova.
Non so se davvero porti un messaggio, o se sia solo la mia immaginazione a leggerlo così. Ma in questa foto io sento un annuncio. Non un proclama, non una vittoria gridata, ma il sussurro ostinato di chi continua a vivere. Forse ciò che la donna annuncia non ha un nome preciso. Forse annuncia semplicemente che, anche quando tutto sembra finito, la vita trova la strada per ricominciare.
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