Di Yuleisy Cruz Lezcano
C’è un uomo, sulle rive del Tamigi, che ogni giorno costruisce sculture di sabbia sapendo che la marea, di lì a poco, le cancellerà. Non lo vedremo mai al telegiornale. Non è un assassino, non è un truffatore, non ha rubato, né ha distrutto nulla. Eppure è lì, con le mani sporche di sabbia e una forma di bellezza tra le dita, effimera e gratuita, che esiste solo per essere donata. Questo gesto, così semplice e potente, racchiude una verità scomoda per il nostro tempo: il bene silenzioso non fa audience, e dunque non esiste nella narrazione dominante.
Viviamo in un’epoca in cui tutto viene spettacolarizzato: dal dolore alla morte, dalla solidarietà alla tragedia. I media, da decenni, alimentano una rappresentazione distorta della realtà in cui solo ciò che scuote, che fa scalpore, che scatena reazioni immediate, trova spazio. Secondo l’Osservatorio di Pavia – che analizza sistematicamente i contenuti dei telegiornali italiani – oltre il 60% delle notizie ha a che fare con cronaca nera, incidenti, catastrofi, conflitti. Il restante è una combinazione di politica urlata e gossip patinato. La bellezza, la gentilezza, la solidarietà autentica sono invisibili, anche se invisibile non vuol dire inesistente ma è una scelta editoriale, non una legge di natura.
La parola “notizia”, secondo la definizione accademica, è qualsiasi informazione ritenuta rilevante per comprendere la realtà e le reazioni che può provocare. Eppure, nel nostro ecosistema mediale, la notizia è stata svuotata di senso e riempita di sangue. L’assassino è diventato protagonista, il ladro eroe maledetto, il criminale icona pop. È un processo che ha radici antiche, ma che oggi, nell’era digitale, è esploso in una bolla di contenuti sensazionalistici. I social network hanno solo amplificato il problema, trasformando ogni evento tragico in uno show, ogni gesto empatico in una sceneggiata, ogni opinione in una battaglia da combattere a colpi di like e condivisioni.
E così, anche i gesti più nobili vengono spesso messi in scena per essere monetizzati. La beneficenza si fa in diretta, con il logo ben visibile e la fotografia pronta per la sponsorizzazione. La visita in un reparto oncologico si trasforma in un reel, la lettura di una poesia a un malato in una campagna promozionale. Si aiutano i bambini africani con una mano, mentre con l’altra si regge lo smartphone. In un mondo dove se non è visibile non è reale, l’etica si misura in engagement, non in impatto. Questo fenomeno, che studiosi come Byung-Chul Han definiscono “pornografia dell’autenticità”, distrugge alla radice il valore del gesto gratuito, rendendo il bene uno strumento per ottenere consenso.
Ma il paradosso è ancora più profondo. Se è vero che l’uomo impara per imitazione, allora l’insistenza martellante su ciò che è distruttivo non può che generare ulteriore distruzione. Il filosofo René Girard parlava di “desiderio mimetico”: tendiamo a desiderare ciò che gli altri desiderano, a imitare comportamenti ritenuti di successo o visibili. E se il modello proposto è quello dell’aggressività, della furbizia, della sopraffazione, è naturale che questi diventino tratti aspirazionali, soprattutto per le generazioni più giovani. Non è un caso che la violenza sia oggi normalizzata in molti linguaggi culturali, dalla musica trap alle serie televisive, dai videogiochi alla politica-spettacolo. La cronaca nera crea eroi distorti, mentre chi si spende nel silenzio per gli altri resta relegato nel margine della “non notizia”.
Eppure esiste un’umanità che resiste, che non ha bisogno di platee, che continua a creare bellezza non per esibirla, ma per regalarla. Sono le madri che accudiscono i figli disabili, i giovani che assistono i nonni senza raccontarlo a nessuno, i volontari che operano nei campi profughi senza un ufficio stampa. È il vicino di casa che porta la spesa all’anziana del piano di sopra. Sono milioni di piccoli gesti che tengono insieme il mondo, senza mai finire in prima pagina.
Forse, allora, la vera rivoluzione passa da un’educazione diversa. Se avessimo il coraggio di cambiare il paradigma scolastico, potremmo cominciare a costruire cittadini più consapevoli e meno manipolabili. Se fossi io il Ministro, scrive provocatoriamente qualcuno (forse io?), introdurrei due materie fondamentali: lo studio critico dei media e della comunicazione, e le scienze mediche di base. Perché è impensabile vivere nel XXI secolo senza comprendere il funzionamento delle tecnologie che ci condizionano, che orientano i voti, che creano falsi nemici e costruiscono idoli di carta. E allo stesso tempo è impensabile continuare a ignorare il corpo, il dolore, la fragilità, in un mondo in cui la sanità pubblica è in crisi e l’umanità è sempre più sradicata dalla compassione.
Imparare a leggere un giornale, decodificare un’immagine, comprendere i meccanismi della viralità, riconoscere una fake news, analizzare i linguaggi della paura: tutto questo dovrebbe essere centrale nella formazione scolastica. Così come dovrebbe esserlo imparare a curare una ferita, assistere un anziano, riconoscere un malore, parlare con rispetto a chi soffre. Sarebbe un modo concreto per creare coscienze libere e mani capaci, menti critiche e cuori presenti. E renderebbe inutile ogni predica sull’empatia: perché quando impari a toccare la sofferenza dell’altro, impari davvero a essere umano. Invece oggi si continua a proporre sempre la stessa narrazione, asfittica e ansiogena. I telegiornali aprono con la paura, chiudono con la rabbia, e in mezzo ci mettono l’invidia. È la triade perfetta per mantenere alta l’attenzione e bassa la coscienza, ma una società nutrita solo di negatività si ammala, si inaridisce e perde la fiducia nella bellezza, nella bontà, nella possibilità di un futuro migliore.
Allora, forse, la vera rivoluzione non è tanto raccontare meno il male, ma cominciare a raccontare anche il bene. Dare spazio a ciò che costruisce, celebrare chi si impegna, chi crea, chi consola. Non per edulcorare la realtà, ma per restituirle equilibrio. Perché la verità è che, nel mondo, accadono ogni giorno milioni di cose meravigliose, solo che non fanno rumore.
Un tempo, pensavo che questi fossero pensieri ingenui, da persona troppo attaccata all’infanzia. Oggi, invece, ne sono convinto più che mai: se mostriamo solo ciò che distrugge, coltiviamo distruzione, ma se cominciassimo, anche solo un po’, a invertire la narrazione, potremmo forse scoprire che la bellezza, a differenza dell’orrore, non ha bisogno di essere consumata in fretta. Resta dentro e ci cambia.
[ Immagine in evidenza : Dipinto di Will Rochfort ]





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