La maman stava preparando la colazione, tè bollente e biscotti al forno, nonostante fuori ci fossero quaranta gradi all’ombra. Maman si svegliava ogni mattina alle 5:00 per preparare. “Maman” era il nomignolo che le aveva dato suo marito Asharaf appena nacque il primogenito. Un bel maschietto tutto cannella e ahmar, “rosso” in lingua araba, per quel colorito simile al  peperoncino. Letteralmente in arabo, “ahmar” viene usato come aggettivo per dire “rosso come il lato B delle scimmie!” — un modo ironico e un po’ canzonatorio, molto usato nel parlato quotidiano.
Quel giorno aveva salutato la secondogenita, Laika, prima che sbattesse la porticina di fragile legno tarlato dietro di sé, schizzando fuori alla velocità della luce in direzione centro, la grande metropoli, per raggiungere la sua facoltà di studi: “Académie Mode de Nazareth”.

Ciao, Laika, hai bevuto il tè?” disse, sempre con quel suo modo come avesse il cuore in gola, come se qualcosa dovesse accadere da un momento all’altro.
Sì maman, ma ora non ho tempo. Lo finisco al ritorno.
No! Finiscilo ora!
No. Ho detto di no. Faccio tardi. Quante volte ti ho detto che le cose calde non riesco…” fece un tale rumore quella porticina che la fine della frase si dissolse nel nulla per sempre, come sabbia nel deserto.

Laika era una ventenne normale, se non fosse per quelle particolarità che la distinguevano dalle altre nel suo paesello: aveva i capelli corti e lisci, le gambe affusolate, era senza un grammo di pancetta a spuntarle dalle pieghe dell’abito grigio-musulmano. Le donne di lì invece erano così ben piazzate, quando non stavano a divorare pollo in ciotole di riso andavano alla ricerca di una qualche buona scusa per farlo.
La mattinata tra appunti e traduzioni in geroglifici antichi, con i professori gentili dalla barba curata in stile Fratelli musulmani e i coetanei senza un pelo neanche a pregarlo, era trascorsa via come da routine.
Stava tornando a casa dall’università, erano le ore 12:00. La caldissima ora del Duhr, con il muezzin che alto annunciava la preghiera. Le sue cuffiette bianche penzolavano scollegate. Rideva da sola per un video visto poco prima su TikTok: i suoi genitori odiavano quella piattaforma e gliela vietavano, ma lei, ogni volta che usciva, non poteva fare a meno di scrollarlo e di lasciare commenti ad ogni clip divertente che trovava.

Il furgone nero era parcheggiato lì da ore, il motore spento. Vetri oscurati, targa sporca. Il gallo della villetta a fianco aveva appena terminato di cantare.
Un uomo alto, col volto coperto da un kefiah nero, la prese di forza e la spinse dentro il veicolo. Nessuno vide niente, nessuno sentì nulla. Un urlo sordo, un tonfo, poi il silenzio.
Quando sua madre Basma si accorse che sua figlia ci stava impiegando troppo a tornare a casa, la chiamò dal suo vecchio telefonino della Nokia, che altro non si potevano permettere in quel quartiere, in cerca di una qualche rassicurazione. Ma trovò solo la segreteria, quella voce registrata così monotona, quasi robotica:
“Mashallah, in questo momento sono impegnata, appena possibile richiamo, ma sta a te darmi un motivo per farti richiamare! Ma’a salama!”  poi quella squillante risatina finale, rauca, da perfetta vivace marocchina.
Richiamò subito. Ritrovò la segreteria. Ritrovò quella risatina finale.
“…Ma’a salama! Ahahah!”
Che? Cosa? Pronto…pronto? Habibi!? Habibi!
Era strano che avesse il telefono spento, lo teneva sempre in mano. Era una ragazza moderna, non stava mai senza smartphone per più di dieci minuti.
Basma continuava a pensare ad alta voce: “Cos’è successo alla mia piccola Laika?” Sì, aveva vent’anni, ma per i suoi genitori era come se ne avesse ancora 10.

Erano le ore 15:00. Esattamente 3 ore senza avere una sua risposta. Esattamente 3 lunghissime ore senza sapere nulla. 7 messaggi vocali in segreteria, 48 messaggi scritti dal suo fratellone e da Baba: “Perché? Perché proprio a me? Perchè mi stai lasciando così appesa?” Esattamente 3 lunghissime ore e 15 interminabili secondi per decidere di correre alla centrale di polizia a fare denuncia di scomparsa, a cercare un conforto, un aiuto. Ma proprio lì iniziò l’attesa più reale e straziante.
La centrale era grigia, silenziosa, immersa in un caldo impastato di polvere e sudore. Basma stringeva tra le mani il telefono, quasi volesse strizzarlo per far uscire una risposta, una notizia, un qualunque segno di Laika. Suo marito stava in piedi, la schiena rigida, lo sguardo duro, ma gli occhi pieni d’angoscia. Il fratello camminava avanti e indietro nel corridoio senza trovare pace.
Nessuno li ascoltava davvero. Un agente, svogliato, prese i dati: nome, cognome, età, vestiti al momento della scomparsa. Poi quella frase, come un violento colpo basso: “Signora, prima di 24 ore non possiamo fare una vera denuncia. Magari è solo scappata, magari è da un’amica. Succede.
Basma non urlò. Non pianse. Ma dentro di lei qualcosa si frantumò irreparabilmente.

La notte cadde troppo in fretta. Il cielo si chiuse su un quartiere dove, tra le antenne arrugginite e i fili elettrici intrecciati, ogni luce sembrava sospesa sul vuoto. In casa, il silenzio era un’insopportabile punizione. La tv, accesa su un canale qualunque, solo per fingere che il mondo non fosse cambiato. Il pianto trattenuto, soffocato, nascosto come fosse una vergogna.
Laika, la loro ragazza solare, l’unica a sapere come far ridere il padre, l’unica che insegnava alla madre come usare Facebook, sembrava essere svanita di colpo nel nulla, insieme all’ultima frase detta uscendo di casa. Dissolta come sabbia del deserto.
Ma nessuno svanisce davvero senza lasciare almeno una piccolissima traccia.
Fu il fratello, Amir, a torvarla. Notò un dettaglio la mattina successiva, nella via dove era scomparsa. A qualcuno era caduta una piccola spilletta, una stellina dorata del tutto simile a quella che Laika portava sempre sullo zaino. Poco più avanti, vicino ad un lampione, c’erano segni di pneumatici recenti, un’area dove l’asfalto sembrava grattato da una manovra brusca. Amir scattò una foto e la mostrò a Basma. Lei lo guardò fisso negli occhi e decisa disse:
Troviamola. Anche se la polizia non ci crede. Noi dobbiamo trovarla!
Da quel momento la famiglia non aspettò più “l’aiuto dall’alto”, ma cominciò a fiutare ogni cosa in ogni posto.

Ben presto si accorsero che Laika non era l’unica ragazza ad essere sparita in quel modo dal quartiere. Qualcosa di oscuro e spaventoso si muoveva nell’ombra, quel furgone nero non si era trovato lì per caso.
Basma parlava ormai poco, solo gli occhi, pieni di fuoco e di sete, raccontavano del suo dolore e della sua determinazione. Passava le notti a rileggere le carte degli interrogatori dei compagni d’università, a cercare chi fosse l’ultima persona ad averla vista, a passare in rassegna i nomi dei pezzi grossi con le grandi ville che vivevano accanto a quell’ultimo tratto di strada dove era stata ritrovata la spilletta. Gli articoli, le chat rubate dal vecchio telefono della figlia. Cominciò a girare per le strade, coraggiosa e instancabile in cerca di risposte. Nel sottobosco lavorava di nascosto, muovendosi come un ninja, concentrata e paziente. Alla polizia portò tutto, ma nessuno, di nuovo, la ascoltò davvero.
Ma orme, sentieri, voci, tutto quanto portava verso un’unica ed evidente destinazione: Casablanca.
Ci mise quasi un anno per farsi assumere in questa città. Cambiò identità, imparò l’antica arte del silenzio. Divenne invisibile. Sul suo nuovo documento c’era scritto: Nome “Naima” – Cognome “El Fassi”. Si propose come cuoca e governante, “esperta di piatti tradizionali berberi”, e grazie ad una vecchia raccomandazione le porte alla fine le si aprirono davanti.
Iniziò a lavorare per loro. Per lui. Per l’uomo che molto probabilmente aveva ordinato il rapimento. Che forse la teneva ancora lì, o forse, l’aveva già cancellata.

Bass Bass! T’ho detto che non lo devi dire al telefono questo! Quante volte te l’avrò spiegato il perché?!
Khalas!! Yalla! (Fermati. Stop. Dai!). Non ho fatto nomi per ora. Tranquillo. Ta‘āla, Ta‘āla! (Vieni) stasera a cena da me. Staremo in pace. In shā’ Allāh (Se Dio vuole) nessuno ci disturberà, Boss…
Tawaqaf! (Finiscila!). Lascia stare. Non chiamarmi Boss, tanto ormai non mi fido di nessuno!
Dissero i due capoccia della cancelleria di Casablanca. Entrambi abitavano lì con le rispettive famiglie, entrambi con il ruolo di braccio destro di alcune figure di stato, ma in stanze lontane e diverse del Palazzo: uno nell’ala Est, l’altro nell’ala Ovest.
Ogni sera la maman origliava alla porta di Khalid Hossein, l’autista del furgone nero, farfugliare affari con Rahim, complice anche lui di quelle assurdità orrende che facevano alle ragazzine più povere e vulnerabili del quartiere. Un quartiere che un tempo era il più silenzioso e sconosciuto tra tutti ed ora stava per diventare il più chiacchierato e conosciuto.
“Si stava meglio prima, quando si stava peggio”, diceva come prima cosa la gente alle truppe giornalistiche che piombavano lì come degli avvoltoi. E continuavano: “Eh sì già, già… bei tempi, quando non c’erano tutti questi mezzi, questa globalizzazione. Le ragazze? Tutte casa, scuola e moschea! No, adesso è diventato un bordello anche qui…

Basma ormai aveva quasi piena convinzione della tragica fine della sua figlia femmina. Con la quale avrebbe voluto invecchiare, vederla innamorarsi, diventare madre, ed invece Dio non aveva voluto. Aveva considerato per lei un destino diverso, ben più amaro.
Con lo sporco nel cuore, con il fuoco della giustizia negli occhi, Basma non smise un solo giorno di cercare la prova schiacciante, la certezza. Riuscì a venire a conoscenza di alcuni dettagli, tre per l’esattezza, tre indizi che la avvicinavano alla cruda verità:
1) Il capoccia aveva problemi con tutte e quattro le mogli. Non gli davano soddisfazione. Erano già datate, e due di loro erano persino sterili. Questo portava al secondo indizio.
2) Aveva sviluppato una vera ossessione per le ragazze giovani, snelle e senza un filo di pancia, ma fertili.
3) Aveva preso l’abitudine di conservare un feticcio di quelle ragazze: unghie finte, lunghe e smaltate. Le sue mogli, invece, avevano le unghie cortissime, mangiucchiate dal nervoso che certamente lui procurava loro. Quelle donnone ricche e sempre piene di prelibatezze avevano le mani grosse, tozze, con le estremità sempre un po’ rosso, quasi sanguinolente. Povere.
Quelle unghie lunghe, con smalto rosso, rosa, blu notte, le teneva stupidamente nel cassetto del comodino.

Basma in breve tempo diventò la cuoca personale di Khalid Hossein, finendo talmente tanto nelle sue grazie che lui la lasciava entrare in camera sua per spolverare i canterani intarsiati d’oro, i poggiapiedi lastricati di pietre preziose e la cabina armadio. Le unghie lucide e lunghissime stavano esattamente lì, nel comodino accanto al letto. Alcune avevano ancora la colla secca sotto, alcune sfoggiavano decorazioni arzigogolate, moda del momento tra le young adult women.
Trovò anche un cofanetto chiuso, nel prenderlo tra le mani per esaminarlo, un intenso profumo di siero di cocco le arrivò alle narici. Quel fluido, come cosa sacra, quel fluido che Laika usava. Era suo, ne era certa.

Basma continuò a cucinare e servire la cena come sempre aveva fatto fino a quel momento, ma i suoi avevano ora, tutti un ingrediente nuovo: Lacrima di Medea unita al cumino. La Lacrima di Medea è un veleno antico, trasparente come l’acqua, completamente privo di sapore e odore. Una sola goccia, disciolta nel tè o nella zuppa, si insinua nel sangue come un sussurro silenzioso. Non lascia tracce. I sintomi iniziano lentamente: un lieve mal di testa, un senso di calore al petto e poi, poi il cuore si ferma, come se si addormentasse. Una trappola mortale, sicura e “quasi indolore”. La pianta da cui si estrae la Lacrima di Medea è una varietà rara di felce notturna, che cresce soltanto in grotte umide e ombrose del Mediterraneo. Le sue foglie rilasciano, se distillate con luna nuova, il letale liquido trasparente.
A palazzo, il profumo del cumino era ovunque. Gli sceicchi e le loro consorti ne erano ossessionati: lo adoravano come fosse una spezia sacra. Lo tostavano all’alba, quando l’aria era ancora fresca, e lo spargevano nei cortili interni come incenso. Ne mettevano manciate nel pane arabo, nei biscotti del mattino, e perfino nelle tisane servite tra un pettegolezzo e l’altro. Era il loro segreto aromatico, la firma olfattiva del potere. Nulla usciva dalle cucine reali se non conteneva almeno un’ombra di cumino. Era la legge non scritta, era un culto.

All’inizio nessuno fece caso ai mal di stomaco degli sceicchi, ma quando questi problemi gastrici con il tempo si trasformarono in decessi, nei meandri labirintici del Palazzo le voci cominciarono a farsi insistenti e preoccupate. Venivano chiamati le “morti improvvise”. Abdul, capo delle guardie giurate di Casablanca, possedeva anticorpi forti, insoliti per chi viveva in quelle zone. Ma doveva pagare, doveva essere eliminato il prima possibile: Naima quella sera non dosò nemmeno il mix di Lacrima di Medea e cumino, ma versò l’intera boccetta del veleno. Quella stessa sera Abdul morì tra i lancinanti dolori al basso ventre. Intossicazione o che altro? Nessuno sembrava riuscire a venirne a capo, tranne, ovviamente, una persona: Naima El Fassi.

Basma aveva ormai portato a termine il suo piano, aveva vendicato sua figlia ed insieme a lei le tante altre povere ragazze a cui era stata strappata via crudelmente la vita. Con quel senso di giustizia sarebbe tornata nel suo quartiere, a casa sua, dal marito e dal figlio, se non fosse che una sicaria, ancella e talpa di una delle mogli, riuscì a scoprire la verità: Basma era un’assassina seriale che eliminava le sue vittime in modo silenzioso ed insospettabile, avvelenandole con pietanze fumanti dal profumo intenso di cumino. Una storia fuori dall’ordinario, che ben presto finì su tutti i notiziari.
Il caso divenne famosissimo, paragonato al caso messicano di Miriam Rodríguez Martínez, che aveva decimato da sola il clan de El Cartel in Messico.

Durante l’interrogatorio la polizia non le risparmiò nulla. Le fecero il terzo grado, volevano sapere tutto, con le buone o con le cattive. “Come ha scelto le vittime? Dove ha acquistato il veleno? Chi l’ha raccomandata? Chi l’ha fatta entrare a corte? Chi era conoscenza del suo piano? Chi sono i suoi complici?”. E soprattutto: “Per quale ragione l’ha fatto?! Vogliamo ogni singolo dettaglio!” E Basma, con lo sguardo calmo e le mani ferme ancora odoranti di spezie, iniziò a raccontare.
La stanza dell’interrogatorio soffocava di sigarette fredde al narghilè e sudore datato. La luce al neon tremolava sopra il volto impassibile di Basma, seduta dritta, mani incrociate sul tavolo, parlava con voce chiara, lenta, scandendo ogni singola parola in modo quasi ipnotico. Era come se stesse spiegando le dosi per una ricetta.
“La prima volta è stato per vendetta, poi…è diventata una missione.”
Uno degli ispettori, il più giovane, scribacchiava freneticamente su un taccuino. Il commissario la fissava, studiava ogni sfumatura nei suoi occhi cercando una crepa. Ma non ce n’erano.
Scelgo uomini potenti, corrotti. Che se la cavano sempre. Quelli che nessuno osa toccare. Quelli che rovinano la vita delle ragazzine. Io oso. Io… cucino per loro. So tutto di loro: come vogliono le mutande ripiegate, come vogliono siano stirate le camicie. Ce n’è uno, pensate, che ha la fissa del ghutra. Mai, mai ripiegarlo da sinistra a destra, sempre prima da destra a sinistra. L’ho studiato. Sono diventata lui, le sue manie. Hamar! (asino). Baheimm! (animale). So cosa gli piace fuori dal letto. E cosa non gli piace dentro al letto.

Il caso esplose in tutto il Paese con il nome “La Ninja di Casablanca”. I giornali ne fecero titoli a caratteri cubitali: Giustiziera al cumino: la vendetta silenziosa di Basma
Il veleno sotto il tajine
Tre gocce di Lacrima nel cumino
La Ninja del cumino dolce ha colpito ancora
Ancora un altro magnate morto a corte, chi si nasconde dietro la misteriosa Naima?
I notiziari raccontavano i dettagli con toni morbosi: bottigliette senza etichette trovate nel doppio fondo della cucina, spezie importate da mercati sconosciuti, e un ricettario scritto a mano che sembrava un grimorio.
Eppure, più la polizia ed i giornalisti scavavano nel passato di Basma, più emergeva nitido un altro volto della donna e della storia: era stata una madre disperata, la cui figlia era scomparsa a soli 20 anni e mai più ritrovata. Le autorità, all’epoca, avevano archiviato il caso come “fuga volontaria”. Ma Basma aveva trovato le prove. Gli uomini coinvolti. Aveva “solo” cominciato a cucinare per loro.

Nella prigione di Ain Sebaâ divenne quasi una leggenda. Alcune detenute la temevano, altre la veneravano. I secondini la chiamavano “Ninjachef”. Era tutto un – Ninja chef qui… Ninja chef lì… Ninja chef inginocchiati e fammi un lavoretto.
Le colleghe della sezione femminile, terroriste, beccate poco prima che sganciassero la cintura da sotto il burqa, la appellavano “Sì chef!” o “No chef!”. Le riconoscevano un certo rispetto, un occhio di riguardo, per quello che era stata in grado di fare. Lei, del resto, incuteva sospiri di panico quando veniva assegnata al pian terreno. Il piano dove c’era la cucina.
Menta secca, limone candito, la sua cella profumava sempre di qualcosa.

Un giorno, durante l’ora delle visite in carcere, un volto nuovo le si fece davanti. Era una donna vestita di nero, gli occhi di ghiaccio. Le disse:
So che ti manca qualcosa. So che non hai finito il lavoro.
Basma la guardò. Qualche graffio nell’anima l’aveva trasformata in donna calma, posata, con una fermezza da leonessa, ma in quel preciso momento un sorriso riapparve sul suo volto dopo tanti anni.
Quando scoppiavano risse, lei oltrepassava le detenute ferite, col profilo basso ma la testa alta, la schiena dritta. Si era abituata a tenersi tutto dentro, tanto da non rammentare più come fosse la sua personalità di prima. Le altre la studiavano, inquietate, masticando foglie di menta. L’additavano come lupa solitaria. Era fiera della sua nomea. Orgogliosa di essere l’eroina di quelle giovani vittime. L’eroina di sua figlia.
La donna si alzò e se ne andò senza dire altro, ma lasciando sul tavolino un sacchetto di tela grezza. Basma, senza nemmeno bisogno d’aprirlo, lo riconobbe: cumino nero, tostato. Era il segnale. L’ultima dose. L’ultima firma. Una lacrima.
Bastava un granello nel punto giusto e il passato sarebbe bruciato, piano. La memoria ha un sapore, ed è acre, profondo, persistente.


[ SiteLink : Marianna punto G. ]

4 risposte a “Marianna punto G. – Maman cumino. Il sapore della memoria”

  1. :-O occhi a palla, sei professionale you! io faccio wow, anzi wowPuntoGì^^

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    1. 🤗 Grazie Marianna, sei davvero gentile. Apprezzo il tuo entusiasmo e sono contento di sapere del tuo gradimento.🙂

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  2. Al gradimento di Marianna aggiungo anche il mio!

    Racconto intenso, crudo, spietato

    Piace a 1 persona

    1. Grazie, caro Teresio, condivido pienamente le sue parole. Marianna ha scritto davvero un racconto che trovo molto interessante. Ci leggo diverse importanti riflessioni possibili, più e meno comode, alcune stratificate, altre amalgamate.

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