Ho iniziato a seguire le tracce del prozio Emmerico due o tre anni fa (ho scritto qualcosa in proposito qui e ne ho parlato al Torino Poesia Festival 2025, si trova qui), ma dopo avere raccolto informazioni, documenti, vecchie fotografie, lettere dal passato, ho iniziato a sentire il bisogno di vedere personalmente i luoghi, di percorrerli fisicamente, di nutrire l’immaginazione del contatto con la realtà. Il sentiero – come dice Machado – si fa camminando e questo particolare cammino è cominciato l’anno scorso, a Castello Tesino, in Valsugana, dove ancora, dentro il bosco, vicino al torrente Grigno, si conserva il maso dei Boso di Pierotto.
Seguire le tracce di Emmerico Boso vuol dire, oltre Castello Tesino, anche Arbon sul lago di Costanza in Svizzera, dove all’inizio del ‘900 tutta la famiglia si spostava per lavorare, probabilmente nelle fabbriche tessili; poi Ginevra; Pergine Valsugana e l’ospedale psichiatrico, dove morì il padre Piero; la questura di Trento che teneva sotto controllo tutta la famiglia. Il cammino ci porta in Savoia, a Thonon Le Bains sul lago di Leman, dove Emmerico animò una “biblioteca popolare” e quindi a Chambéry per trovare lavoro; ad Huesca, in Spagna, per combattere i franchisti nelle fila della sezione italiana del battaglione Ascasio, guidata da Berneri e Rosselli; poi nel ’37 a Marsiglia sulla via del ritorno dal fronte spagnolo; a Torino, in via Rosolino Pilo, dove veniva “nascosto” dalla sorella e di nuovo attraverso le montagne, al Colle del Piccolo San Bernardo, per scappare in Francia. A Ventotene , dopo la cattura al confine e quindi nel campo prigionia di Anghiari dopo l’8 settembre 1943; a Bolzano ancora prigioniero, questa volta dei nazisti e infine a Mathausen con la matricola numero 110443.
Quest’anno, approfittando di un giro in Valle d’Aosta abbiamo cercato le tracce del prozio sul colle del Piccolo San Bernardo, là dove, nel 1940, venne catturato al posto di frontiera italiano, probabilmente confuso dentro la fila di emigranti in marcia verso la Francia, con il passaporto scaduto, mentre cercava di scappare dalla polizia politica che gli stava addosso.

Quando siamo arrivati, la mattina, il colle era deserto, ventoso, freddo, coperto di nuvole. Interrotto il flusso di automobili da lavori cantonieri sul lato francese, segnalata come chiusa anche la strada dal lato italiano, abbiamo chiesto ad un pastore – un buon tratto oltre La Thuile – se si potesse salire fino al colle ed è stato fidandoci di lui che abbiamo raggiunto il passo. Chiuse o abbandonate le poche strutture presenti, il paesaggio brullo del pascolo alto, tinto dell’ocra e del marrone autunnali, le nuvole schiacciate sulle rocce, la stratificazione storica sullo spartiacque dell’Alpe Graia agiva sui nostri sensi come un moltiplicatore di sensazioni, sospinto dalle folate del vento freddo.
Al Piccolo San Bernardo, sulla linea di confine, c’è un ellissi di pietre conficcate nel terreno, che ricorda luoghi di culto neolitici ma che potrebbe anche essere una realizzazione molto più recente, “erudita”, risalente alla fine del XVIII° secolo. Nel tempo il sito è stato molto modificato, diverse pietre sono state spostate, la strada di valico che è rimasta sul tracciato voluto da Giulio Cesare fino alla seconda metà del XIX secolo, nel tracciato moderno disegnato dagli ingegneri positivisti andò a tagliare esattamente in due il “cromlech” alpino e rimase così per quasi un secolo e mezzo, fino agli scavi archeologici e ai lavori di sistemazione che nel 2010 portarono la route nationale ad aggirare con un’ampia curva il cerchio litico.

Altri interventi e spostamenti avvennero in occasione delle opere belliche realizzate dall’esercito italiano per il secondo conflitto mondiale. Oggi i resti militari in calcestruzzo e pietra che tagliano trasversalmente la linea stradale sono la testimonianza più inquietante lasciata dal tempo su questi pascoli. Ma, a parte l’enigma del cromlech, le tracce sul terreno sono tante: innanzitutto le piste e i sentieri sui fianchi della montagna che portano ad alpeggi e rovine di fortificazioni; i resti di una mansio, una stazione di posta d’epoca romana, testimoniano il traffico importante di quella che fu in età imperiale la Via Consolare delle Gallie. Immediatamente accanto al bordo della strada, lo sguardo del caminante è attratto inevitabilmente da qualcosa che non si vede di frequente: una colonna di pietra verde alta circa cinque metri, chiamata localmente colonne Joux, ovvero “colonna di Giove”, sormontata da una statua di san Bernardo.

La colonna è risalente alla stessa epoca della mansio e potrebbe essere una rimanenza del complesso rituale di età imperiale dedicato a Giove. La sua presenza è attestata già in fonti erudite del tardo XVII° secolo. Una leggenda locale vuole che la colonna fosse sormontata da una grande pietra rossa, chiamata Escarboucle, che era dedicata a Giove e ne rappresentava lo sguardo. L’ enorme, magico rubino, “l’occhio di Giove”, sarebbe stato poi rimosso dallo stesso San Bernardo (di Mentone) quando, nell’ XI secolo, fece costruire l’ospizio per rinnovare la millenaria tradizione di assistenza e accoglienza a viaggiatori e pellegrini.
L’ospizio, oggi una costruzione austera dall’aspetto primo novecentesco, venne devastato durante la seconda guerra mondiale, rimase abbandonato e pericolante per oltre quarant’anni ed è scampato alla demolizione grazie alla costituzione di una società senza scopo di lucro che riunisce enti e comunità locali e ne ha consentito la ristrutturazione e la ripartenza nel 1995. La sua mole severa domina la parte francese del valico, quasi all’estremo limite settentrionale del pianoro. Noi l’abbiamo trovato chiuso, come tutto il resto: i vecchi posti dogana italiana e francese, i più recenti uffici del servizio di linea della corriera, il bar Lancebranlette, Altro elemento affascinante di questa terra alta è il Giardin Chanusia, a metá strada fra l’Ospizio e la vecchia frontiera italiana: è un orto botanico d’alta quota e insieme un laboratorio di biodiversità alpina, voluto dal canonico, botanico e alpinista Jean Pierre Chanoux, rettore dell’ospizio dal 1859 al 1909, che fondò il giardino nel 1897 per proteggere e far rispettare la flora alpina.

Tutti insieme, i segni che solcano questo spartiacque producono una complessa dissonanza, hanno direzioni contrastanti, disegnano nello spazio e nel pensiero una forma di disordine che nasce dal sommarsi di spinte in direzioni diverse, come un invito a perdersi e insieme un richiamo all’ordine. Qualcosa che paralizza e al contempo carica di energia. Siamo passati davanti al vecchio posto di frontiera italiana, che da giugno 1940 al 1947 era spostato presso la vecchia dogana francese. In quel punto il colle è più stretto, la strada è obbligata, i fianchi del colle sono brulli e bassi, il doganiere li controlla con uno sguardo; non ci sono altri sentieri percorribili. Allora ho pensato Emmerico, che si avvicina al posto di guardia, nel freddo, sapendo di avere in tasca un passaporto scaduto, cercando di mescolarsi agli altri migranti di passaggio, sperando di trovare un varco. E si è spezzato il fiato.
Ogni transito per queste montagne
è comunque il passo di un antenato
la sua scarpa sul posto di frontiera
l’infinita sua, invisibile, resa.













Fonte: http://www.ina.fr
[ Sitelink : “…se hace camino al andar” ]





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