Di Yuleisy Cruz Lezcano
Viviamo in un’epoca in cui l’immagine precede la realtà, la addomestica e la riscrive. Non viviamo più per ricordare, ma per mostrare; non per sentire, ma per registrare. I momenti che chiamiamo “indimenticabili” non vengono più conservati nella memoria affettiva, ma nei rullini digitali dei nostri telefoni. Tuttavia, sempre più spesso, ciò che condividiamo non è il momento in sé, ma una pose ben riuscita, il risultato di un attento lavoro di selezione, correzione e filtraggio.
L’esperienza reale cede il passo alla rappresentazione ideale di sé, e così l’apparire diventa una seconda pelle, una maschera che si confonde con il volto.
La distanza tra ciò che siamo e ciò che mostriamo è il nuovo tipo di shock dell’epoca contemporanea. Gli psicologi lo chiamano disallineamento percettivo: il trauma silenzioso che si produce quando l’immagine che diffondiamo di noi non coincide più con la nostra percezione interiore. È un cortocircuito identitario che si manifesta con ansia,insicurezza, senso di inadeguatezza. Secondo ricerche recenti pubblicate su BMC Psychology e Computers in Human Behavior, l’uso intensivo di filtri e di fotoritocco sui social network è direttamente collegato a una riduzione dell’autostima, a un aumento dei disturbi d’immagine corporea e alla comparazione costante con modelli irrealistici. Non si tratta solo di estetica, ma di verità. L’immagine digitale, creata per rappresentarci, finisce per sostituirci. Ciò che era pensato come ricordo si trasforma in simulacro: una versione perfezionata, levigata e luminosa che ci sopravvive, ma non ci corrisponde. Quando poi ci specchiamo nella realtà — nei nostri corpi non filtrati, nelle giornate stanche, nei volti senza posa — proviamo uno shock. Non riconosciamo più la nostra stessa immagine. È la frattura dell’io in una cultura che confonde autenticità con estetica.
Condividiamo foto “felici” che spesso non coincidono con momenti di felicità, ma con momenti fotogenici. È la regia dell’apparire: si posa, si corregge, si filtra, si seleziona. Ogni immagine è un frammento di un’identità costruita, calibrata per ottenere approvazione. Così, più le nostre foto migliorano, più la nostra vita ci appare imperfetta. Ci abituiamo a credere che la felicità coincida con la sua rappresentazione, che valga solo ciò che si può mostrare.
De-costruire l’apparire significa allora tornare alla fragilità del reale. Significa accettare che non tutto ciò che è bello è fotografabile, e che non tutto ciò che è fotografabile è vero. L’autenticità non nasce dalla nitidezza delle immagini, ma dalla densità delle esperienze. Forse dovremmo tornare a vivere momenti che non si possono postare, a custodire ricordi che restano solo nostri. Non perché le immagini siano un male, ma perché la vita comincia quando smettiamo di guardarla attraverso uno schermo.
Il primo gesto politico dell’epoca digitale potrebbe essere questo: non fotografare. Non per disinteresse, ma per presenza. Non condividere, ma vivere. Forse la vera rivoluzione estetica è accettare che la realtà non sempre ci lusinga, ma ci appartiene. De-costruire l’apparire non è rinunciare alla bellezza, è restituirla al suo luogo naturale: l’incontro tra verità e imperfezione.
[ Immagine in evidenza : dipinto di Romina Bassu – Particolare ]





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