L’autunno è arrivato impetuoso anche quest’anno, portando con sé tutti i rituali necessari per prepararsi al giorno del Sol Invictus. Un repentino cambio climatico ha prodotto un crollo delle temperature, per ricordarci che l’estate è oramai un ricordo lontano. La schiuma del mare ha lasciato, definitivamente, il posto alla bava delle lumache, che, curiose, escono ad osservare il mondo, dopo il primo temporale. Io, come il barone rampante, mi arrampico su un castagno, sbucciandomi le dita e lanciando improperi contro le divinità dei boschi, che quegli alberi hanno riempito di spine e gusci e piccole corazze marroni. Uno scoiattolo, grigio e sciatto, mi oltrepassa il braccio, ancora avvinghiato al tronco solido dell’albero. Come un marinaio d’altri tempi, mi sento a mio agio sull’albero maestro della mia imbarcazione, che altri non è se non il mondo nella sua totalità. Mi sporgo da un lato per osservare gli scorci di quello stesso mondo che apre le braccia agli sconosciuti e le incrocia ai suoi figli prediletti. Il mondo visto da quassù è colorato, e l’aria è pura nel pomeriggio inoltrato. I raggi del sole arrivano obliqui, portando una luce soffusa e diffusa, che penetra tra i rami fitti della vegetazione e permea l’intera area di una luce magica, frastagliata, minuziosa, che si ricompone nel terreno fatto di fogliame sparso e terriccio così fertile da mantenere in vita una foresta intera. Io so che li sotto, al di sotto dello strato delle foglie, e più sotto ancora, oltre lo strato morbido del terriccio e quello più duro del terreno compattato si estende un groviglio di radici, non meno intricate dei rami sovrastanti. E quelle radici si intrecciano tra loro, creando connessioni tra tutti gli alberi del bosco, che restano in contatto, come se fossero un unico grande immenso organismo vivente. Mi sento parte del tutto, e mi stempero nel grigio corrugato del tronco, fino a diventare un tutt’uno con esso. I piedi nudi, aggrappati ai nodi delle naturali connessioni, si graffiano sui pori larghi dei solchi scavati dalla natura stessa, sanguinando verso il basso, in gocce grandi di liquido rosso scuro come la porpora. Il liquido si addensa sul fogliame in un laghetto, che sarà nutrimento per gli insetti del luogo. Io sono parte del paesaggio, non lo osservo più. Vi appartengo e questa appartenenza mi dà un brivido che mi percorre dai talloni fino alla cima della testa, uscendo dal cuoio capelluto, attratto da forze più grandi di me. La clorofilla, che dava alle foglie sui rami, il caratteristico colore verde, cede di fronte ai cannoni del freddo, che già bussa impetuoso alla porta dell’hotel Il Gelsomino, che svetta sull’altro crinale del monte. Le foglie non perdono la forza, ma solo il pigmento, che venendo meno, permette ai nuovi colori, che erano rimasti nascosti dentro all’essenza stessa delle foglie, di rimanere al mondo, portando nuova luce su di esse. Tutto, allora, si colora di rosso, giallo, marrone chiaro e scuro. Verde è il contorno delle foglie, ancora legate al picciolo, desiderose di raccontare ancora un po’ i loro segreti. Io sono Cosimo, il barone rampante, porto per cappello il tricorno, e una penna di merlo attaccata ad esso. Mi dicono che il nero sfini, così, per non dimenticarlo, porto la mia penna nera come il carbone, in giro per i borghi. L’Irpinia mi chiama ancora, anche e soprattutto in autunno, ma voglio attraversarla tutta saltando di ramo in ramo, con la stessa agilità delle scimmie, senza mai toccare il suolo, perché voglio osservarla da una nuova prospettiva. I lampi suoi vegetali erano digeriti dai miei occhi verdi, spalancati su un mondo ancestrale, costruito pietra su pietra, senza mai nascondersi dietro mani ignobili. I muri di cinta dei castelli sono ancora intatti nella nostra epoca, dando un senso di ordine e protezione. Difficile, per me, arrivarvi attraverso i rami. Sono costretto a scendere giù. Le nostre foreste si tengono lontane, ormai, dai centri abitati, che sembrano radure tra i boschi, dove si innalzano edifici di pietra e cemento. Sparuti esseri umani si affaccendano a fare cose all’apparenza senza senso, riscaldati dal sole tiepido e ristoratore dell’autunno. Ne fanno tesoro, lo incamerano tutto, perché sanno che breve è il passo che li separa dall’inverno terrificante e freddo, che congelerà il sangue e i sogni. Ma io non ci penso, meglio vivere il momento e crogiolarsi al sole che scaccia i pensieri malevoli e porta fortuna sulle nostre terre. Giù in basso, dal fondo del colle, uno scampanio mi riporta alla bellezza dei luoghi. Decine di vacche podoliche, guidate da un pastore, che porta in sé i semi dell’evoluzione umana, si dirigono verso pascoli di valle, dove trascorreranno i mesi freddi, sognando ancora i verdi prati del Laceno o del Terminio. È la transumanza al contrario, che percorre le strade di primavera, ma, questa volta, in discesa, che ci mette di fronte al mutare delle stagioni e , con essa, alla caducità dell’esistenza umana. Anche noi, come tutto intorno, siamo soggetti alle leggi del tempo, con i peli folti dell’età matura, che imbiancano in età più tarda fino all’ultimo saluto alla finestra di questo angolo di paradiso. L’autunno è un inno alla vita bucolica, allo star bene con i frutti della terra. Un inno all’attesa, che porta sempre a giornate di gloria, aspettate o meno, un inno alla trasformazione, al saper mettere in pausa certi processi in attesa del tempo in cui saranno di nuovo grandi.
Lo scampanio si allontana, le vacche seguono il vecchio sentiero e la valle si richiude dietro di loro. Io resto sospeso sull’albero, come un punto fermo nel respiro del tempo. L’autunno non annuncia, non promette: accade.
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