Il giardiniere e la morte, di Georgi Gospodinov, mi ha attirato non appena l’ho visto sugli scaffali delle librerie, non solo per il nome del suo autore, il grande scrittore bulgaro di cui ho letto, alcuni anni fa, l’originalissimo Cronorifugio, ma anche per il suo titolo e per la splendida copertina botanica. E la lettura dell’opera, di difficile classificazione, per bocca del suo stesso autore, non mi ha certo delusa. Romanzo o memoir, si chiede Gospodinov in uno degli ultimi capitoli. Azzarda anche altre definizioni meno ortodosse: romanzo elegiaco, romanzo giardino, botanica della malinconia. Si tratta in effetti di un memoir romanzato: l’autore racconta gli ultimi mesi di vita del padre, malato di cancro all’ultimo stadio, il corpo invaso dalle metastasi, parla della sua morte e del periodo che la segue, e naturalmente si lascia andare anche a ricordi della sua infanzia e di quella del padre stesso, per quel poco che noi figli possiamo sapere della vita dei nostri genitori prima che noi venissimo al mondo; della sua adolescenza e giovinezza, fino all’età adulta, fino al momento in cui questo padre lo lascerà per sempre.

La grande passione di Din’o, così si chiamava l’uomo, era il giardino. Nel corso degli anni la famiglia aveva cambiato più volte abitazione, in una Bulgaria povera e “sovietica”, quasi sempre a piano terra o in seminterrato: alle ristrettezze di appartamenti angusti (a volte di una sola stanza) e scarsamente luminosi faceva da contrappeso la possibilità di coltivare fiori e ortaggi, qualche volta anche alberi da frutto, nei cortili di quei palazzi. Din’o ha sempre amato il giardino e coltivato i fiori più belli e le verdure più saporite, che riusciva a traslocare da una casa all’altra: le rose, i tulipani, i narcisi e le calle, i pomodori, le melanzane, le zucchine e ogni altro ortaggio. Da anziano, quando il figlio ha avuto la possiblità di vivere in una bella casa a Sofia, suo padre è tornato nel suo villaggio in campagna, dove poteva coltivare il suo giardino, il suo orto. La sua vita era scandita dalle stagioni, dalla semina e dall’attesa, dal vedere spuntare le prime pianticelle fino a godersi i fiori nel loro splendore e i frutti maturi. Nel libro si alternano pagine che narrano la passione di Din’o per il giardino e altre che invece descrivono passo passo la sua malattia, il progressivo indebolirsi, il trasferimento a casa del figlio che lo accudirà fino all’ultimo. Non mancano momenti di intenso lirismo e momenti di riflessione sulla vita e sulla morte, sui legami tra padre e figlio, sul giardino e sulla capacità che hanno le piante di morire senza drammi a ogni autunno e di rinascere a primavera: una dote che a noi umani manca.

Quest’opera, commovente, ma anche capace di far sorridere per i tanti aneddoti raccontati, scritta con vera maestria e altrettanto mirabilmente tradotta da Giuseppe Dell’Agata, mi ha ricordato varie cose. Per l’abbinamento morte/giardino mi ha richiamato alla memoria il bellissimo Al giardino ancora non l’ho detto, di Pia Pera; per la superiorità delle piante rispetto agli uomini nel rapporto vita/morte mi ha fatto pensare a Lettere delle piante agli esseri umani, di Sanja Särman. Nel leggere del calvario del padre malato e moribondo non ho potuto fare a meno di pensare al mio, di padre: le sigarette fumate fino all’ultimo, il voler dilazionare la morte immaginando sempre giorni futuri da trascorrere, il rifiuto di guardarsi allo specchio nel timore di vedersi tanto cambiato…

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