Di Rosa Bianco


25 Novembre: la lunga storia della condizione femminile dalla Repubblica ad oggi

Il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, l’Italia si ritrova davanti a uno specchio,  che mostra non solo le ferite del presente, ma anche l’immagine mutevole – e spesso tradita – delle donne nella nostra storia repubblicana. È un giorno che costringe a rileggere il passato con occhi nuovi, perché la violenza, anche quando si manifesta fisicamente, non inizia mai con un gesto: inizia prima, nell’immaginazione collettiva. E l’immaginazione delle donne – come le donne stesse – è stata per decenni negata, compressa, fraintesa.

L’Italia che nasce: donne come custodi, non protagoniste

Alla nascita della Repubblica, le donne italiane avevano da poco conquistato il diritto di voto. Erano state fondamentali nella Resistenza, avevano ricostruito il Paese, eppure la narrativa del loro ruolo rimaneva intrappolata nei secoli precedenti: materne, silenziose, di supporto. Il Codice Rocco – figlio del ventennio fascista – continuava a regolare questioni cruciali della loro vita. Il delitto d’onore sopravvisse fino al 1981; lo stupro, fino al 1996 (Legge 15 febbraio 1996, n. 66 — “Norme contro la violenza sessuale”) , era un crimine contro la morale, non contro la persona.

Era un’Italia in cui la legge stessa immaginava le donne come entità da tutelare più che soggetti autodeterminati. La violenza era spesso rubricata come faccenda privata, e proprio in quella “privatizzazione” della sofferenza si annidava la sua più grande forza: invisibile, dunque innegabile.

Gli anni della trasformazione: il corpo, le parole, le lotte

Negli anni Sessanta e Settanta qualcosa si incrinò. Le donne iniziarono a raccontare sé stesse, a reclamare corpo, voce, cittadinanza. Nacque una nuova immaginazione femminile: spregiudicata, visionaria, intellettuale, concreta. Da Sibilla Aleramo a Carla Lonzi, da Lidia Ravera a Dacia Maraini, la scrittura diventò detonatore politico.

Fu anche la stagione in cui il legislatore venne trascinato – mai spontaneamente – verso un nuovo terreno: il divorzio, l’aborto, la riforma del diritto di famiglia. Ma su un punto la cecità restava intatta: la violenza. Nonostante l’emergere dei primi centri antiviolenza, lo Stato faticava a riconoscerla come fatto strutturale. Troppo radicata era la fantasia patriarcale che voleva la donna domestica e domestica: confinata, regolata, contenuta.

Dal mito privato alla denuncia pubblica: la legge e la realtà

La vera cesura culturale arriva negli anni Novanta. Nel 1996, finalmente, lo stupro diventa reato contro la persona. È una rivoluzione, ma tardiva: segno che l’immaginazione istituzionale procede sempre più lentamente dell’immaginazione sociale.

Il nuovo millennio porta in superficie ciò che prima si sussurrava: la violenza non è emergenza, ma sistema. Arrivano leggi più avanzate – sullo stalking (2009), il recepimento della Convenzione di Istanbul (2011), le misure di protezione preventiva – ma ogni avanzamento giuridico sembra sempre inseguire un dolore già esploso. È la dinamica della “violenza postuma”: quella che riconosciamo soltanto dopo che ha lasciato un corpo, un nome, una cronaca.

L’immaginazione contemporanea: le donne riscrivono lo spazio pubblico

Oggi l’immaginazione delle donne è vastissima, molteplice, politica. Dagli studi di genere alla creatività digitale, dalla scienza alla magistratura, dall’attivismo alle arti, siamo davanti alla più grande espansione culturale femminile della storia italiana. Eppure, proprio questa fioritura si scontra con una realtà tragica: più le donne si immaginano libere, più alcuni uomini – incapaci di sopportare quella libertà – reagiscono con violenza.

Non è un paradosso: è la prova che la violenza è un tentativo di reprimere l’immaginazione altrui. Colpire una donna significa tentare di piegare la sua voce, il suo spazio, la sua narrazione. È un attacco al futuro, oltre che al presente.

Oltre la retorica del “mai più”: un nuovo immaginario necessario

Nella giornata del 25 novembre, il rischio è sempre lo stesso: fermarsi alla commemorazione, alla statistica, alla condanna rituale. Ma la vera sfida è culturale. Non basta educare al rispetto: bisogna reimmaginare radicalmente i ruoli, le relazioni, la maschilità stessa. Bisogna smontare il repertorio simbolico che per secoli ha assegnato alle donne una posizione secondaria e ha giustificato la forza come strumento di controllo.

Perché la violenza sulle donne non è un fatto di devianza, ma di ordinaria normalità: nasce nelle battute, nei silenzi, nelle gerarchie, nelle abitudini. Per combatterla non basta la legge: serve una rivoluzione dell’immaginazione.

Un Paese nuovo: quando l’immaginazione delle donne diventa progetto nazionale

Dalla Repubblica ad oggi, la storia delle donne italiane è stata un continuo esercizio di immaginazione: immaginare diritti che non c’erano, vite che non esistevano, possibilità non concesse. Hanno anticipato lo Stato, la cultura, la società. Oggi tocca all’Italia allinearsi a quella immaginazione e riconoscerla come bene comune, come patrimonio civile.

Ed è proprio in questo quadro che si inserisce la notizia di queste ore: la Camera ha approvato all’unanimità la riforma dell’articolo 609-bis del codice penale, sancendo che “senza consenso è stupro”. Un accordo bipartisan – siglato ai massimi livelli tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein – introduce finalmente la nozione di “consenso libero e attuale”, in linea con la Convenzione di Istanbul, con il quale l’ Italia va ad unirsi ai 21 paesi europei che già hanno fatto questo passaggio.

La proposta di legge attende l’ultimo passaggio al Senato, dove l’approvazione non dovrebbe farsi attendere: un’ipotesi è proprio la data simbolo del 25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Una svolta definita “storica” da parlamentari di ogni schieramento e salutata dalle associazioni come il frutto di cinquant’anni di battaglie. È un passaggio che sposta il baricentro del giudizio: non sarà più la vittima a dover provare la resistenza, ma chi agisce a dover dimostrare che un consenso esplicito esisteva e persisteva. Un riconoscimento atteso, che tutela le situazioni di vulnerabilità e archivia definitivamente stereotipi giuridici che hanno lacerato intere generazioni di processi e biografie.

Questa riforma non è solo un atto normativo: è l’esito, provvisorio e ancora incompiuto, di quella stessa immaginazione che per decenni ha guidato i movimenti delle donne, i loro “no” e i loro “sì”. È il segno che il Paese può cambiare quando sceglie di ascoltare la parte migliore di sé. E arriva, non a caso, alla vigilia del 25 novembre: come se la Repubblica provasse finalmente a riallinearsi ai suoi valori fondativi, a quelle libertà che le donne hanno anticipato molto prima che diventassero legge.

La violenza postuma – quella che vediamo quando è troppo tardi – deve ora lasciare spazio a una prevenzione viva, a un immaginario condiviso che non tolleri più il possesso, la paura, l’annientamento. Proteggere l’immaginazione delle donne significa proteggere la democrazia stessa, perché una Repubblica che consente la violenza è una Repubblica che tradisce la sua promessa.

Nel 2025, come nel 2015 e come nel 1946, la sfida resta la stessa: trasformare la libertà immaginata dalle donne nella libertà effettiva dell’intero Paese.


Rosa Bianco, nata a Napoli nel 1965, è insegnante, critica letteraria e giornalista. Da sempre dedita alla ricerca culturale e al dialogo tra pensiero e umanità, ha condotto studi approfonditi sulla libertà di coscienza, intesa come spazio privilegiato di incontro con l’altro. Relatrice e moderatrice in convegni culturali, letterari, filosofici, storici e politici, caratterizzati da un elevato profilo qualitativo, presenta libri, progetta e realizza eventi, mostre e rassegne, distinguendosi per un approccio insieme rigoroso e appassionato all’esegesi e all’approfondimento. Con il suo lavoro, intreccia riflessione e divulgazione, contribuendo in modo significativo a mantenere viva la dimensione pubblica del pensiero critico.


2 risposte a “Violenza sulle donne: cinquanta anni di battaglie!”

  1. Arrivo in ritardo a leggere questo post. E che dire se non, speriamo.

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