Guardate che bistecche, diceva Vincenzo con un moto d’orgoglio, guardando i quarti di bue frollati esposti nella grande vetrina che chiudeva lo spazio tra il banco di lavoro ed il muro perimetrale del grande supermercato in cui lavorava. Li guardava come un uomo innamorato guarda la sua donna, come una madre guarda il suo bambino, con lo sguardo languido di un carcerato che guarda il mare attraverso le sbarre.

Vincenzo, ho bisogno di cinque bistecche, ma quelle buone, mi raccomando, chiese Giovanni, cliente affezionato di vecchia data. Mi puoi accontentare?

Buongiorno Giovanni, rispose Vincenzo, che continuò chiedendo: che ci devi fare?

Bella figura. Questa sera torna mio figlio, con la fidanzata, e gli voglio far assaggiare le migliori bistecche che abbiano mai mangiato.

Vincenzo, dopo aver pensato per qualche attimo, si voltò verso la vetrina dei pezzi pregiati: ti consiglio questa: bistecca di chianina, novanta giorni di frollatura, praticamente un burro.

Annuì Giovanni. Me ne fai cinque, ma tagliale sottili.

Vincenzo lo guardò stranito: le bistecche al di sotto delle due dita di spessore, non sono bistecche, ma carpaccio, e rise, come si ride dopo aver ascoltato una battuta. Ci penso io, continuò. A ciascuno il proprio mestiere. E così dicendo, si affrettò ad aprire lo sportello della grande vetrina, dalla quale estrasse un controfiletto. Lo sollevò verso l’alto, e facendolo girare tra le mani, lo guardò da tutte le direzioni. La lombata più bella che ho, frollata per ben novanta giorni, di una tenerezza unica. Con il sorriso soddisfatto stampato sul volto, poggiò il pezzo di carne sul grande banco da lavoro. Poi lavorando con due coltelli ed una mannaia, ne estrasse cinque pezzi di carne, spessi, dal colore rosso scuro, asciutti e flaccidi. E guardando Giovanni negli occhi: lo strato di grasso l’ho risicato, ma non tolto del tutto. È la parte più buona, dopo la cottura.

Giovanni lo guardò stranito: mi stai dicendo che dovremmo mangiare tutto quel grasso?

Si, rispose secco Vincenzo, e non solo lo mangerete, ma ne desidererete ancora.

Giovanni, prese il pezzo di carta che avvolgeva le cinque bistecche e lo ripose nella busta che portava con se quando faceva la spesa. Pagò e si allontanò dal banco macelleria.

Vincenzo entrò gongolandosi nel retrobottega, dove Pasquale, l’aiutante, era intento a tagliare i polli che tirava fuori da un grosso contenitore di polistirolo. Li adagiava, uno alla volta, sul tavolo da lavoro, e con colpi secchi di mannaia, li divideva in due, quattro, otto pezzi. Altri venivano lavorati più finemente. Con un coltello lungo ed affilato ne estraeva il petto, separava le cosce e le ali. Il busto veniva tagliato in due parti con un colpo secco. Il petto, con perizia, veniva dapprima separato a metà, poi sfilettato. Tutti i pezzi ottenuti, divisi per tipologia omogenea, venivano sistemati su vassoi di colore giallo, avvolti con pellicola trasparente, pesati, prezzati, ed accatastati l’uno sull’altro. Poi, in una pausa dalla macellazione, Pasquale, si caricava sulle braccia tutta la colonna di vassoi sovrapposti e, facendo il giro del banco, li depositava nella vetrina esterna, quella a diretto contatto con le persone, quelle più frettolose, che, non avendo tempo per fermarsi al banco, sceglievano i pezzi di carne, così finemente preparati, direttamente dalla vetrina frigorifero. Vincenzo, intanto, si gongolava al banco, chiacchierando con qualche signora e vantandosi, sempre, di avere i migliori pezzi di carne disponibili sul mercato. Entrava ed usciva, con una periodicità matematica, dalla grande cella frigorifero, dove erano stipati interi quarti di bue ancora da sezionare, agnelli, conigli, maiali, tutti rigorosamente appesi con dei ganci alle grandi barre di acciaio inossidabile che correvano tutto intorno al perimetro della cella o al soffitto.

All’interno della cella si muoveva con la solita maestria. Sceglieva con cura la carne che doveva trattare, se la caricava sulle spalle, e con sforzo proporzionato al peso dell’animale, lo portava fuori dalla cella, depositandolo sul grande tavolo da lavoro che campeggiava al centro della sala di lavorazione. La pulizia era maniacale, e ne aveva fatto uno dei suoi più importanti punti di forza. Sia che la lavorazione ed il taglio della carne fosse affidata alle sue mani, o a quelle del suo assistente, tutti gli scarti di lavorazione, erano riposti con cura in un grande secchio, anch’esso in acciaio inox. Le frattaglie erano poi destinate, una volta tornato a casa, ad alimentare i grandi molossi che aveva liberi nel proprio giardino: il miglior deterrente per ladri e malintenzionati, diceva spesso.   

Mi dica Signora Raffaella, preferisce il macinato di manzo o quello di maiale?

Per lei, signora Teresa, c’è sempre un po’ di sconto ed un sorriso extra regalato dal padrone di casa.

Antonio, il polpettone te lo incarto? O preferisci che te lo dia con tutto il vassoio? Ma, mi raccomando, il vassoio riportamelo, che non ne ho molti.

Signora Gianna, che piacere rivederla. Come sta? Ce la vogliamo fare una bella anatra all’arancia alla sua bella famiglia?

Signorina Gina, che piacere rivederla qui. Si vede che lei mangia carne: è la donna più bella ed in forma di tutto il supermercato. Mica come quelle lì, magre magre e smunte, che mangiano solo erbette e si proclamano vegetariane. Lei si che se ne intende di fatti della vita.

Anche quella giornata trascorse in fretta, tra una chiacchiera ed un sorriso, tra una parola buona spesa per i clienti ed una lama affondata nelle carni tenere degli improvvidi animali.

Erano oramai le nove di sera, quando congedò Pasquale: vai, torna a casa. Sistemo le ultime cose e chiudo.

Buonanotte, disse Pasquale, con aria stanca, ci vediamo domani mattina.

Vincenzo ritornò nella sala che era stata dedicata allo sfasciamento delle carcasse. Raccolse i coltelli che erano sul piano di lavoro e fece per portarli verso il lavabo, quando una nebbia gli si parò davanti, gli oscurò la vista. La cosa lo colse di sorpresa, a tal punto che ebbe solo il tempo di gettare un’occhiata intorno per capire se ci fosse un incendio, e per tirare su dalle narici due sniffate d’aria, per comprendere se fosse fumo. Fece giusto in tempo a compiere quei gesti, quando perse conoscenza, per un po’, non per molto, risvegliandosi, subito dopo, all’interno di un camion, uno di quelli attrezzati per il trasporto bestiame.

Lo capì subito, perché da giovane, prima di mettersi nel commercio delle carni, guidava proprio quei camion, e lo faceva nel tragitto che andava dalle stalle di consegna degli animali, fino al macello. Da giovane autista non si era mai posto domande sul come e perché gli animali fossero trasportati al macello. D’altronde lo pagavano bene, e lui aveva una fidanzata. Quei soldi gli servivano proprio per farle dei regali e aveva tante cose a cui pensare, per cui, i rumori che provenivano dal rimorchio, non li sentiva. Quelle povere bestie, custodite in cassoni larghi il necessario per farli viaggiare su strada, areati da feritoie poste sui lati, lì dentro, proprio non volevano restarci. Scalciavano, muggivano, belavano, gridavano al mondo il proprio malessere, ad un mondo che di loro, sembrava non interessarsi, se non quando fossero diventati squisiti piatti da manuale culinario.

Vincenzo in quell’epoca non sembrava interessarsi per nulla degli animali che trasportava. Abbassava la sponda rivestita in legno davanti alla porta di ferro della stalla, e li osservava salire. L’unico suo pensiero era che non si procurassero ferite, o che non si mordessero reciprocamente. Gli avevano spiegato che un animale con ferite profonde ed evidenti aveva un minor valore commerciale e che a lui sarebbe stata decurtata una parte della somma dovutagli. Per questo motivo usava molte precauzioni nella fase di carico e scarico del bestiame, soprintendendole personalmente. Si premurava di dare tutte le dritte necessarie all’allevatore, il quale, conoscendo bene gli animali in consegna, poteva gestirli al meglio, evitando spiacevoli incidenti.  

Vincenzo si guardò intorno con aria sospetta. Sembrava che fosse finito dentro ad uno di quei cassoni, con feritoie laterali, in mezzo ad una piccola mandria di mucche. A prima vista sembrano di razza Chianina, pensò tra se. Gli esemplari erano ben cresciuti, in perfetta salute, di un bel bianco porcellana. Le corna erano avvolte con diversi strati di un materiale spugnoso, legato stretto con degli elastici spessi.

Il fetore delle feci, che qualcuno aveva lasciato sul pavimento cosparso di paglia, era tremendo. Gli entrava dal naso e sembrava riecheggiargli proprio al centro della testa. Intorno a lui contò quattro esemplari, bianchi e statuari. Uno di questi lo spinse, proprio quando il camion sembrò affrontare una curva. Vincenzo si innervosì per quella improvvisa pressione sul proprio addome. Gli vennero in mente delle parolacce, che cercò di esternare. Fu in quell’esatto momento, che, dalla sua bocca non uscirono parole, ma un forte muggito.

Ne rimase sorpreso, sbalordito, e preoccupato. Pensò che il muggito fosse stato emesso in simultanea con le sue parole, coprendole. Provò di nuovo a dire qualcosa, ma, allo stesso modo, si udì un muggito forte, che cominciò con un suono grave che si spostava progressivamente verso tonalità più acute.

Wow che bella voce che hai, gli disse la mucca che era di fianco.

Ma sono una mucca anche io? Rispose Vincenzo, preoccupato.

Certo che sei una mucca. Non vedi che sei grande e grosso e tutto bianco?

Vincenzo si sentì mancare il terreno sotto ai piedi. Come è possibile che io sia una mucca? Sarà di certo un brutto sogno, dal quale devo, ad ogni costo, risvegliarmi.

Fece per muovere il braccio verso il volto, per darsi un pizzico, uno di quelli che si danno per far rivenire qualcuno. Il braccio non si mosse, e, d’altronde, il braccio non c’era. Voltò la testa verso destra, cercando di osservarsi, ed effettivamente, vide il corpo bianco di un bovino adulto, in posizione eretta, legato allo stallo centrale del vagone. La corda che pendeva dal collo, era molto lassa, e serviva più da deterrente psicologico, che non da vero e proprio legaccio per l’animale.

Vincenzo non riusciva a capire per quale motivo fosse lì e per quale motivo avesse le sembianze di una mucca.

L’esperienza gli insegnava che quei tipi di traporto fossero effettuati per trasferire gli animali al macello. Questo lo rendeva ancor più nervoso. Lui sapeva bene come si svolgevano quelle faccende e quanto poco tempo ci volesse affinché diventasse un hamburger.

Cercò di capire come si muovessero le quattro zampe. Non era, di certo, una cosa semplice, ne tantomeno automatica. Doveva comprendere come inviare gli impulsi giusti per muovere le singole zampe, e per sincronizzarle tra loro, simulando una camminata, e poi, quale fosse il muscolo da spingere per muovere la coda. Dopo un po’ di esercizio, la cosa gli venne abbastanza spontanea.

Fu in quel momento, una volta preso il governo del movimento delle proprie zampe, che si mise a calciare contro le sponde laterali del camion, urlando agli altri di fare altrettanto.

Nella parte finale del rimorchio c’era un grosso toro, anch’egli bianco, che udite le urla di Vincenzo, ed eccitato dal forte rumore della lamiera calciata dagli zoccoli, si mise a fare la stessa cosa, contro il portellone di carico e scarico. Quest’ultimo, sotto i colpi violenti del toro, si aprì all’improvviso, dopo il cedimento delle cerniere che lo tenevano agganciato al cassone. Con il portellone penzolante ed approfittando del rallentamento della velocità di marcia, in seguito ai timori del conducente che aveva udito il trambusto, le bestie si precipitarono giù dal camion.

Il toro saltò per primo, finendo con il volto ed il petto a terra. Per poco non si spezzò entrambe le zampe anteriori, per via del peso e della forza di gravità.

Subito dopo saltarono le due vacche e poi Vincenzo, che con un saltello goffo saltò giù dal mezzo che, nel frattempo, si era fermato.

Il conducente, tale Michele, si precipitò giù dalla cabina di guida. La scena che gli si parò dinanzi era a dir poco esilarante, se non fosse per il fatto che ci avrebbe rimesso la paga e, forse, anche la possibilità di continuare a lavorare. Due mucche, un toro, ed un vitellone bianco erano sull’asfalto, e si dirigevano spediti verso il margine della strada, dove si aprivano campi, apparentemente sconfinati.

Il portello posteriore del camion era penzoloni per metà, ed aveva una evidente rottura ad una delle cerniere. Una mucca era ancora sul cassone, timorosa di lanciarsi nel vuoto. Con una corsa disperata, Michele si lanciò in direzione delle vacche che stavano al margine della strada, dove si erano fermate, indecise sul reale da farsi. Il toro chiese delucidazioni al vitellone Vincenzo: beh ci hai fatti saltare giù dal camion, ma ora, di preciso, cosa dovremmo fare? Vincenzo farneticò qualcosa: dobbiamo allontanarci il prima possibile da questo luogo e dileguarci nel nulla. E come vivremo? Chiese una delle mucche? Tu lo sai che sono abituata a stare al caldo, nella mia stalla, e a mangiare il miglior fieno maturato sotto ai raggi del sole estivo del Sud?

Voi non capite quello che sta per accaderci, urlò Vincenzo, in un impeto di lucidità. Gli umani Vi curano, e vi danno da mangiare, per tutelare i loro interessi, e non certamente i vostri.

L’altra vacca accennò ad un sorriso: si vede che sei giovane ed hai strane idee per la testa. Noi siamo cresciute in quella nostra stalla da più generazioni, e mai nessuno ci ha mai raccontato di storie assurde, così come tu lasci intendere. Forse puoi affascinare i più giovani, gli inesperti, ma non noi che siamo vacche adulte, e fece una grossa risata.

E dove sono finiti tua madre e tuo padre? Sapresti dirmelo? Disse Vincenzo, con voce impetuosa, preso dall’ansia. Avete mai notato che, ogni tanto, sparisce dalla stalla qualche mucca o qualche altro vitello? Continuò Vincenzo.

Stupido, disse la prima vacca, loro si sono trasferiti in un’altra stalla, dove hanno maggiore spazio per vivere, dove possono pascolare all’aperto, forse qualcuno di loro è finito in una mandria di montagna.

Ahhhhhh, sospirò l’altra, che fortunati.

Stupidi che siete, disse Vincenzo, loro sono finiti al macello e sono diventati carne da mangiare per gli umani.

Risero di gusto le due vacche, ed anche il toro sorrise. Vorresti farci credere che gli umani mangino le nostre carni? Disse una di loro. Ma come ti vengono in mente certe cose. Sono cose inaudite, che non stanno né in cielo né in terra. Ricomponiti giovanotto, disse rivolgendosi al vitellone, tu sei fuori di testa.

Che si fa? Chiese il toro con aria seria, mentre aveva già una zampa sul terreno al di fuori della striscia d’asfalto.

Altri automobilisti, intanto, osservata la scena, un po’ per curiosità, un po’ per senso di solidarietà con l’autista del camion, si erano fermati, ed erano scesi dalle loro auto. Alcuni, i più temerari, stavano, con Michele, cercando di avvicinarsi alle mucche.

Michele, vedendole ferme sul ciglio della strada, raccolte in una sorta di cerchio magico, con il toro leggermente più defilato, si tranquillizzò e cercò di avvicinarle con un tono di voce pacato, calmo, come quello che usano le madri con i loro bambini, o gli uomini con le loro fidanzate.

Belle che siete, disse Vincenzo, ma avete capito che vi sto portando al calduccio in una bellissima stalla moderna, una di quelle in cui ci sono i bracci per i massaggi, dove non sarete costrette a restare ferme nelle vostre postazioni, e dove avrete tanto spazio libero a disposizione, per brucare, in piena libertà, tutta l’erba che vorrete.

Che ti avevo detto? Disse una vacca con aria indispettita rivolgendosi a Vincenzo. Sei una stupido giovanotto, che crede di saperne più degli altri. Gli umani ci adorano e ci trattano bene. Eccoti servito.

Cosa si fa? Continuava a dire il toro spazientito.

E cosa vuoi che si faccia, disse l’altra vacca spazientita. Ringraziamo il cielo che non ci siamo fracassati gli stinchi saltando giù dal camion. Con la mia mole, e la mia delicatezza avrei potuto finire in mille pezzi. Che pazzi che siamo stati a seguire i consigli di un giovanotto senza arte e senza parte.

Ma, piuttosto, disse il toro, da dove salti fuori tu. Nella nostra stalla non ti ho mai visto.

Vincenzo, abbassò la testa pensieroso, sapendo di non poter raccontare chi veramente fosse: non lo avrebbero mai creduto. Io provengo da una stalla vicina alla vostra, ma non ci siamo mai incrociati. Sono stato svezzato da poco e non ho mai veramente socializzato con vacche di altri stabilimenti.

Ecco, rispose una vacca, lo sapevo: un vitellone appena svezzato che voleva dare consigli a noi che siamo vacche adulte e col cervello in testa. A quest’ora saremmo già arrivati nella nostra nuova stalla.

Ahhhhhh, sospirò l’altra. Non vedo l’ora di brucare fresca erba verde nei pascoli sconfinati di queste pianure, coltivata da qualche sapiente fattore che viene anche a farmi le pulizie in casa, liberandomi da escrementi e parassiti.

Spero non ci sia un cane, odio i cani, soprattutto quelli piccoli, disse il toro che fu attraversato da un brivido di ribrezzo.

Certo che ci sarà un cane, disse una vacca, e forse anche più di uno. Lo sai che funzionano come antifurto per le nostre abitazioni, tenendo lontani lupi e predatori. Prega, piuttosto, iddio che i cani ci siano nello stabilimento in cui stiamo per trasferirci.

Poveri illusi mugugnò Vincenzo, poveri illusi che non sapete a cosa andremo incontro. Ma se questo è il vostro desiderio, mi rimetto a voi ed alla vostra scienza e vi dimostrerò, con i fatti, e non con le parole, che le cose stanno ben diversamente da come le immaginate voi.

Michele, che camminava piegato sulle ginocchia e con il busto leggermente piegato in avanti, si avvicinò ad una delle vacche. La accarezzò dapprima sul quarto posteriore, poi su ventre ed infine sul muso, infondendole tranquillità.

Ma che brava che sei, diceva Michele, mentre continuava ad accarezzarla. Vieni che ti porto al sicuro.

La prese per la corda che aveva legata al collo a mo’ di collare, indicandole, delicatamente, la direzione in cui dirigersi. Fecero i primi passi, allontanandosi dal ciglio della strada. Gli altri animali, diventati più mansueti, dopo aver visto quella scena, si incamminarono di seguito, formando una fila, in fondo alla quale c’era Vincenzo, che camminava col capo chino, certo, ormai, di doversi abbandonare al proprio destino. Sapeva bene che se fosse fuggito tra i campi, con grande probabilità sarebbero intervenuti gli uomini del servizio veterinario, che in caso di evidente stato di agitazione dell’animale, avrebbero provveduto a sedarlo e ad abbatterlo a fucilate.

C’era poco da fare, il suo tentativo di golpe era fallito, e non gli restava altro che rimettersi alla volontà degli altri.

Vincenzo abbassò una sponda che sporgeva dalla parte bassa del camion, formando, di nuovo, la rampa che avrebbe permesso agli animali di salire all’interno del cassone.

Uno alla volta, con aria mansueta, si apprestarono a salire. Qualcuno scivolò, procurandosi qualche escoriazione ed un gran dolore alla cassa toracica.

Alla fine, nel volgere di un paio di decine di minuti, tutti i fuggitivi erano a bordo del camion. Michele sistemò, nel proprio alloggio, la sponda che era servita da rampa di risalita, e chiuse alla meglio l’altra che aveva riportato un danno in una delle cerniere di chiusura.

Salì nell’abitacolo e ripartì tra gli applausi degli automobilisti che, scesi dalle auto, avevano osservato la scena della ripartenza dai bordi della strada, o, nel caso di qualcuno, poggiati con il mento alla parte superiore dello sportello.

Ci hai fatto fare la figura degli imbecilli, disse una vacca al vitellone. Quegli automobilisti hanno osservato delle scene indegne che non dimenticheranno molto facilmente.

Ed invece voi le dimenticherete molto presto, rispose Vincenzo, certo del fatto che quella fosse tutt’altro che una passeggiata di piacere.

Il clima all’interno del cassone si era tranquillizzato. Il toro si ergeva fiero nella parte anteriore. Aveva la testa ben sollevata, trasmettendo un senso di orgoglio, per essere a capo di quella piccola mandria acquietata. Le mucche si erano sistemate comode e mangiavano il fieno che era stato sparso sul pavimento del cassone, scegliendone accuratamente le parti migliori e più profumate. Solo Vincenzo si era sistemato nella parte posteriore, dove si era sdraiato, con la testa china, senza proferire più parola alcuna. Il viaggio durò all’incirca tre ore dal momento in cui erano risaliti nel camion, durante le quali nessuno fiatò e nessuno si spostò dalla propria postazione.

Il camion si fermò all’improvviso, si sentì un gran vociare di uomini, che discutevano intorno al camion. Le voci sembravano provenire da ogni direzione: dal lato destro, poi dal sinistro, poi dalla parte posteriore. In mezzo a quel mare di voci, uscì fuori, poi, quella di Michele, che in maniera piuttosto frettolosa aprì il portellone posteriore ed abbassò, ancora una volta, la rampa che avrebbe permesso la discesa verso il piazzale.

Il primo a scendere fu Vincenzo, che si gettò in terra esanime, sdraiandosi sul terreno battuto che formava uno spiazzo, intorno al quale vi erano altri camion simili al loro. Un manipolo di uomini, con cappellini di cotone stretti sopra le orecchie, con stivaloni di gomma verde, si affaccendavano tutt’intorno, tirando corde, sistemando transenne, delineando un percorso sull’erbetta bassa e rada del piazzale.  

L’ultimo a scendere fu il toro, che si fermò all’inizio del percorso obbligato che avevano creato con le transenne.

Strizzò gli occhi per vedere meglio. Che c’è scritto laggiù? Disse, con lo sguardo fisso verso la grande struttura giallo ocra che era perpendicolare rispetto alla strada transennata.

Vincenzo sollevò lo sguardo, e lèsse: MACELLO.

Cos’è un macello? Chiese il toro con aria tranquilla.

È il luogo in cui ci trasformeranno in bistecche, rispose ancora Vincenzo.

Non finì di pronunciare quelle parole, che degli uomini, che indossavano grossi stivali di gomma verde, portati sopra ai pantaloni attillati, con cappellini blu notte, cominciarono a battere ritmicamente dei bastoni in acciaio, dapprima sul terreno e poi sulle transenne. Urlavano frasi incomprensibili, ma facevano cenno, alla piccola mandria, di incamminarsi lungo il sentiero tracciato.

Vincenzo, colpito due volte sul quarto posteriore, fu costretto ad alzarsi, incamminandosi, a sua volta, in coda alla breve fila di bovini.

Arrivarono nei pressi dell’edificio, ed altri uomini, con abiti del tutto simili ai precedenti, aprirono un portone di ferro attraverso il quale si accedeva ad una stanza rettangolare di grandi dimensioni, all’interno della quale si evidenziavano delle grandi gabbie sul lato sinistro. All’interno di una di esse vi erano du maiali, sdraiati a terra con aria sconsolata. Sulla destra una grande trave in acciaio inox correva lungo il muro, rivestito di mattonelle bianche, non più bianche, per tutta la lunghezza dello stesso. Alla trave erano agganciati dei grossi ganci, anch’essi in acciaio, ai quali erano sospesi grossi quarti di bue, senza più la pelle e senza le interiora. Al centro della stanza vi erano quattro gabbie di acciaio, talmente strette che ci si poteva entrare senza più possibilità di voltarsi. Gli uomini da dietro continuavano ad urlare, colpendo ripetutamente il pavimento con i bastoni, spingendo le vacche verso le gabbie centrali. Il primo ad entrare fu proprio il toro. Entrato nelle sbarre si sentì soffocare per quanto erano strette. Cercò con forza di divincolarsi. Solo la testa usciva dall’altra parte delle sbarre attraverso una adeguata feritoia. Mentre cercava, inutilmente, di farsi spazio tra le strette cancellate, un uomo gli si parò davanti, tenendo in mano un lungo tubo nero, che sbucava dal soffitto, che terminava con una impugnatura simile ad una pistola. Gliela piazzò al centro della testa, in un punto preciso, al di sopra dello stop, al centro dell’incrocio delle diagonali tra gli occhi e le corna.

Il toro muggì, per via di quell’arnese freddo sbattutogli sulla fronte. Si sentì un rumore sordo, ed il tonfo, subito dopo, del toro che cadeva in terra esanime.

Le due vacche, che entravano proprio in quel momento nelle loro rispettive gabbie, ebbero un sussulto, un brivido lungo il dorso, che gli fece rizzare i peli che partivano dalla coda, fino alla collottola. Cercarono a loro volta di divincolarsi, muggirono, scalciarono, addirittura, con l’intento recondito, di rompere le inferriate e poter riconquistare la libertà. In pochi minuti lo stesso uomo che aveva sistemato il toro, piazzo l’arnese infernale proprio di fronte ai loro occhi e nel volgere di pochi minuti entrambe le vacche caddero a terra senza vita.

Vincenzo, che conosceva bene la procedura, che nei macelli aveva bazzicato per anni, restò in disparte il più possibile, fino a quando i soliti uomini con gli stivali lo colpirono ripetutamente sul quarto posteriore. Vincenzo, che era un vitellone muscolo e di medie dimensioni, abbassò la testa e, senza protestare, si avviò mestamente verso il proprio destino. Entrò nelle sbarre che gli erano riservate piuttosto agevolmente, e, comunque, con maggiore facilità di quanto fosse accaduto al toro.

Voltò lo sguardo verso la parte posteriore, mentre un cavo d’acciaio, legato ad un argano a motore, tirava il toro verso la parte centrale della stanza, in corrispondenza di un avvallamento del pavimento, al centro del quale vi era un foro, messo lì per far defluire i liquidi. Un uomo, giunto dalla parte posteriore, praticò un taglio profondo sulla gola del toro, i cui muscoli ancora si contraevano, in modo da far defluire tutto il sangue, che, spinto con un getto d’acqua, veniva convogliato verso il pozzetto centrale.

Michele alla visione della scena non battè ciglio, ma con calma serafica e rassegnazione infilò la testa nella feritoia davanti a sé.

Gli tornarono in mente gli odori della campagna d’estate, quando con i genitori, le sorelle, e gli immancabili amici, sedevano nel cortile della casa di campagna. Si scherzava, mentre, di sera, si cenava all’aperto, e forte arrivava alle narici l’odore della menta selvatica, del finocchietto, e della Sulla appena tagliata e lasciata sui campi ad essiccare. Tina correva in cantina a prendere il vino lasciato in fresco, mentre la mamma tagliava a spicchi grossi pomodori, che mischiava con pezzi di cetriolo, carote e patate appena bollite. L’odore dell’olio extravergine impregnava le narici di un effluvio di polifenoli ed acido linoleico. L’estate era nell’aria, il caldo alito della vita strisciava sulla pelle che, per l’occasione, sembrava seta. Nulla lasciava presagire segnali funesti o a qualcosa che potesse assomigliare alla morte. Giovanna ed Antonio si scherzavano dandosi pizzichi sulle braccia e guardandosi con sguardi languidi. Era intuibile l’intesa tra i due e che quei giochi fossero solo il preludio di una volontà di sfiorarsi ed accarezzarsi. Gli odori della maestosa natura erano seduti intorno alla tavola di casa Solomita, quella sera, così come tutte le altre sere di quella lunga e favolosa estate. Vincenzo socchiuse gli occhi e si abbandonò placidamente al proprio destino, mentre l’uomo vestito di nero, gli piazzava l’arnese di ferro proprio sulla fronte. Poi tirò un respiro profondo.


[ SiteLink : GiuseppeTecce.com ]

[ Immagine in evidenza : Dipinto di Folke Lind ]


2 risposte a “Giuseppe Tecce – Storia n.2 [ Racconto inedito da ” Storie da Supermercato” ]”

  1. […] Giuseppe Tecce – Storia n.2 [ Racconto inedito da ” Storie da Supermercato” ] […]

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  2. Mi son fatto violenza per terminare la lettura del suo toccante racconto perché da subito ho capito dove andava a parare.

    Noi bambini del ’46, in campagna soprattutto, siamo cresciuti vedendo la mamma che tirava il collo alla gallina, il papà che spezzava quello del  coniglio e, in inverno, non ci spaventava nemmeno l’arrivo del “masadur”, l’uomo  che uccideva il maiale; anzi era una festa perché tutti intuivamo che ci sarebbe stata dispensa per buona parte dell’anno.

    La nostra serenità aveva basi religiose perché era cibo che il buon Dio metteva sulle nostre tavole.

    In effetti il libro della Genesi dice: “Ogni cosa che si muove e vive vi sarà in cibo; io ve l’ho data tutte, come già vi diedi l’erbe verdi.” (sembra alludere al primo periodo in cui, forse, l’uomo era vegetariano) .

    Sempre il testo della Genesi, pare autorizzare, pur con vincoli, a cibarsi della carne: “Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue.” (sembra essere successivo e conseguente al diluvio universale.)

    Non mi dilungo in discussioni bibliche, faticose e delicate.

    La mia generazione continua a mangiare carne anche se devo confessarle che di fronte al banco della macelleria non provo più il godimento che lei descrive nella prima parte del racconto.

    Mi scuso poi con lei e con gli amici del blog per questo lungo commento , ma il racconto mi ha intrigato e portato a riflettere e intuire che, forse, proprio l’alimentazione sarà la prossima epocale “rivoluzione” e chissà, magari fra cento anni, ci definiranno: quelli che mangiavano carne.

    Qualche cosa sta già succedendo: il “novel food” ne è un segnale: carne coltivata così come latte, uova, pesce e perché no, anche il suo racconto lancia segnali.

    Certo è che se guardiamo negli occhi anche un ragno, di sicuro si fa fatica a togliergli la vita.

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